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La dea che amò un romagnolo. ” Caterina Boratto – La donna che visse tre volte”

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Si è aperta alla Biblioteca Angelica di Roma una mostra di fotografie, locandine, costumi, oggetti, memorabilia e poster cinematografici dedicati a Caterina Boratto, l’incantevole diva degli anni Quaranta che incantò Hollywood e almeno due generazioni di italiani. L’evento è stato curato con affettuosa dovizie di dettagli da Fabio Sposini e Marina Ceratto, la figlia dell’attrice, che ha presentato con l’occasione un appassionante ‘romanzo verità’: “Caterina Boratto – La donna che visse tre volte:” (Edizioni Sabinae pagg. 271 più le appendici, 18 Euro).  Nei tredici capitoli nulla viene celato della vita pubblica e privata dell’attrice, a iniziare dai suoi numerosi e celebri spasimanti. A iniziare dal primo, travolgente, indimenticabile e forse unico vero amore che porta il nome di Aditeo Guidi (“giovane colonnello pilota di Bertinoro, eroe di guerra, il solo a farla letteralmente tremare di desiderio. “Mi chiami Guido”, lui la ammaliò al primo incontro.

Romagnolo irriducibile, l’ufficiale accarezzava il sogno, una volta finita la guerra, di rientrare definitivamente nella propria regione, spalancarle la casa di famiglia, stordirla di passione, impregnarla di sé mettendo al mondo una nidiata di marmocchi. E magari lei non sarebbe diventata Caterina Boratto, una delle stelle più radiose del firmamento cinematografico, alla cui bellezza degna di una dea Federico Fellini eresse un monumento prima in “Otto e Mezzo”, poi in “Giulietta degli Spiriti”, dove la dipinse con le luci e i colori di un’apparizione, il volto di puro alabastro da sfidare le sante d’altare. Nel film era la madre fastosa, regale, di Giulietta (Masina); indossava cappelli smisurati, velette tentatrici più peccaminose di una grata di confessionale. Negli anni Trenta, con un solo film, “Vivere!” la Boratto conquistò una celebrità che divampò oltre l’oceano. Louis B. Mayer, il più potente tycoon dell’epoca, la chiamò a Hollywood per lanciarla verso una carriera da diva internazionale, al pari di Greta Garbo, di Marlene Dietrich; la trattenne per quasi due anni, stipendiata profumatamente dalla Metro, a studiare  inglese e recitazione in attesa del ruolo più adatto per lei. Al ristorante degli Studios c’era un uomo sempre solo, con il cappotto addosso in pieno giugno, chino a scrivere sul tavolo; era Scott Fitzgerald, che quando si accomiatò da lei non nascose la propria emozione: “Lei è qualcosa più di un’attrice, è il battello dei sogni” Caterina frequentò feste mirabolanti, conobbe i più leggendari divi dell’epoca, da Clark Gable, a Mirna Loi, da Robert Taylor a Joan Crawford; Spencer Tracy si incapricciò di lei, le loro labbra si unirono in un bacio rovente ma niente di più, il contratto capestro non le permetteva la minima iniziativa personale: ogni gesto, ogni incontro, persino ogni battito del cuore era vagliato e deciso a tavolino dall’onnipresente agente Billy Grady.

La chimera americana si dissolse con la dichiarazione di guerra di Mussolini, quando la ragazza italiana divenne una ‘nemica’ degli Stati Uniti. L’attrice tornò rocambolescamente in Italia imbarcandosi su una nave che salpava per Città del Messico: “Partii piena di valige, come una diva, indossando un abito di seta bianca e un largo cappello nero. Andai incontro alla guerra come una turista di lusso”. A Trinidad gli inglesi la depredano di ogni avere, abiti, soldi, gioielli. Rientra a Torino in treno, dalla Spagna, in un Paese ingoiato dalla tragedia. Questa storia affascinante come un film dei telefoni bianchi, ma autentica e palpitante in ogni dettaglio, è raccontata in prima persona dalla protagonista, a iniziare dall’infanzia nella famiglia d’origine torinese, per giungere fin quasi ai giorni nostri (la Boratto si è spenta nel 2010, a 95 anni). Il suo è un resoconto onesto fino all’autolesionismo e venato di dolente verità. Ma la sorpresa sbalorditiva è che non è scritto da lei, bensì dalla figlia Marina Ceratto, artefice di un vertiginoso scambio di persona, un esercizio di mimesi che lascia interdetti e stupefatti. Come possa una figlia vestire i panni della madre, sovrapporsi a lei fino restituirne il lessico, il fraseggio, i vezzi, i giudizi, le movenze, i segreti inconfessabili, rimane un mistero inquietante; un caso di avatar, di vertiginosa medianicità. Marina è giornalista e scrittrice, ma questa sua opera alchemica è un capolavoro che va ben al di là del suo mestiere. Suo padre è Armando Ceratto, rampollo di una ricchissima famiglia di Torino proprietaria di una clinica esclusiva, innamorato di Caterina fin da adolescente. Quanto il pilota Guido Guidi perse la vita in un banale incidente aereo in cui non era lui alla cloche, e il baritono Tito Schipa per quasi vent’anni generoso, caparbio, irriducibile corteggiatore, depose le armi di fronte all’inflessibilità della ragazza, il giovane Ceratto riuscì a impalmarla, e nacquero dalla loro unione Marina e Paolo. Nel dopoguerra Caterina conobbe finalmente dieci anni di meravigliosa serenità, circondata dall’alta borghesia della sua città. Poi le vicende mutarono ancora; l’attrice tornò a Roma per riprendere la sua carriera cinematografica. E fu nel 1961 che rivide Federico Fellini, già incrociato al tempo della boheme. In un’intervista filmata che girai con lei, ne rievocò con grazia fiabesca i complimenti ebbri di ammirazione: “Tu appartieni a quell’Olimpo di donne che da sempre porto nella mia personale mitologia.” Pier Paolo Pasolini invaghito della sua personalità non meno della sua bellezza, le ritagliò un ruolo centrale nel suo ultimo, tragico film testamentario “Salò o Le 120 giornate di Sodoma”. Nel libro è tutto rivelato, descritto, narrato, accarezzato; una piena e abbagliante confessione che non nasconde nulla. Irresistibilmente.


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