[Quella che pubblichiamo è la testimonianza – scritta per Voci Globali – di una giovane ventitreenne sierraleonese che, nel suo Paese, ha vissuto l’esperienza della guerra civile, ha studiato e si è laureata negli USA ed è poi tornata in Africa. Un esempio che va oltre gli stereotipi ma che che dimostra quanti se ne incontrano lungo il cammino.
Questa la breve bio di Ngozi Monica Cole: laureata al College of Wooster nell’Ohio. Specializzata in Storia e Scienze Politiche con una tesi sulla crescita delle baraccopoli in Brasile e in Sud Africa rispettivamente durante il periodo della dittatura militare e dell’Apartheid (politica di discriminazione e di segregazione razziale). Attualmente lavora come stagista della facoltà nel dipartimento di Arti e Scienze presso l’Università di Ashesi, ad Accra. Avida lettrice e blogger sul sito www.sepiadahlia.com]
Sono nata a Freetown, la capitale della Sierra Leone, in una famiglia di ceto medio composta da quattro persone. Mio padre lavorava come assicuratore e mia madre era insegnante di scuola superiore. I miei primi anni in Sierra Leone sono stati rattristati dalla guerra civile, in qualche modo ancora irrisolta, che ha finito per devastare il Paese per undici anni. Quando avevo 5 anni, mia madre ha preso me e mia sorella e siamo fuggite in Gambia, dove abbiamo vissuto per cinque anni come rifugiate. In questo Paese abbiamo respirato la libertà dal pericolo, ma anche la vulnerabilità di essere considerate “cittadine di seconda classe“, il modo in cui eravamo trattati noi rifugiati.
Tuttavia, mia madre era determinato a garantire alle sue due figlie l’istruzione migliore che potessero ricevere e a far sì che non vivessero la loro vita con la preoccupazione di essere considerate “straniere“.
Nel 2002 siamo ritornate in Sierra Leone e mi sono iscritta alla scuola secondaria Annie Walsh Memorial School, una delle scuole per ragazze più prestigiose della Sierra Leone. Ero una delle studentesse più giovani nella mia classe, ma questo non mi ha impedito di prefissarmi alti standard accademici. Alla fine nel 2006 ho raggiunto il primo posto negli esami finali in Sierra Leone e ho vinto diverse borse di studio che mi hanno permesso di continuare a studiare nella scuola secondaria Annie Walsh.
Grazie ai miei risultati scolastici, nel 2008 sono stata scelta per entrare a far parte della classe inaugurale del liceo di Johannesburg “African Leadership Academy” (ALA), in Sudafrica. L’”African Leadership Academy” è una scuola panafricana che seleziona i migliori e più promettenti studenti provenienti da ogni parte dell’Africa. I giovani prescelti seguono un programma, definito di livello A della durata di due anni e vengono preparati alla leadership, all’imprenditorialità e agli Studi Africani, parte integrante del curriculum. È stata un’esperienza incredibile! Lì ho avuto modo di incontrare e fare amicizia con studenti provenienti da tutto il continente africano: dallo Zimbabwe al Sudafrica, dalla Nigeria, al Marocco. Tante diverse culture e ricchezza di visioni.
Dopo essermi formata all’ALA, sono entrata al College of Wooster, Università delle Arti Liberali, nell’Ohio e questo è stato l’inizio di un viaggio negli Stati Uniti durato quattro anni. Era la mia prima volta negli Stati Uniti e all’inizi, tutto sembrava essere proprio come avevo visto nei film hollywoodiani. Nella città dove vivevo c’erano delle belle case circondate da palizzate bianche e le strade erano fiancheggiate da pini e querce. Tuttavia, è stato proprio in questa tranquilla cittadina del Midwest che ho fatto esperienza per la prima volta delle differenze razziali e, più in generale, del razzismo. Ero una ragazza nera, che viveva in un campus con solo il 6% di studenti internazionali, e attiravo gli sguardi delle persone quando andavo al Walmart [catena statunitense di negozi al dettaglio – Ndt] o in centro per mangiare nei ristoranti della zona.
È durante il mio secondo anno di università che è iniziata la mia crisi di identità. Tante questioni e situazioni erano nuovi per me e non mi sentivo preparata ad affrontarli. Nella mia mente mi identificavo come cittadina della Sierra Leone. Tuttavia, sembrava che molti americani non sapessero dove si trovasse, e quindi quando me lo chiedevano rispondevo che venivo dall’Africa occidentale. Funzionava meglio.
Ma in ogni caso mi accorgevo che l’identificazione avveniva attraverso una serie di stereotipi sull’Africa, che non sapevo esistessero. Mi veniva chiesto se mi lavavo i capelli tutti i giorni, come mai il mio inglese fosse così buono, quale fosse il nome del mio villaggio, nonostante avessi vissuto tutta la mia vita nelle città!). Senza contare la tormentosa e crudele storpiatura costante della pronuncia del mio nome. Ero confusa e durante quel periodo ho sofferto anche di bassa autostima, mi sentivo come se fossi invisibile e iper visibile allo stesso tempo.
Due cose mi hanno aiutata in quel periodo. In primo luogo, il grande sostegno della rete di amici africani e afro-americani, che mi hanno aiutata a capire le dinamiche razziali in America. Poi, la decisione di prendermi una pausa allontanandomi per un momento dalla vita americana e dai corsi universitari, intraprendendo un programma di apprendimento esperienziale e di full immersion in Brasile.
L’esperienza in Brasile, come ragazza africana nera è stata davvero singolare. Ho potuto identificarmi con alcuni valori culturali degli afro-brasiliani e sono stata accolta come una sorella, soprattutto perché provenivo dall’Africa occidentale. È da lì che provengono gli afro-brasiliani, i cui antenati erano stati catturati come schiavi durante il periodo della Tratta Transatlantica. La mia esperienza in Brasile è stata meravigliosa e quando sono ritornata in America e all’Università mi sentivo meglio, rilassata, e pronta per affrontare il mio ultimo anno di studi.
Dopo la laurea, sono stata fortunata nel trovare un posto di lavoro presso l’Università Ashesi ad Accra, in Ghana. Sono contenta di essere di nuovo vicino casa e integrarmi non è stati difficile. L’unico neo è quando qui scoprono che non parlo per niente il twi (lingua locale del Ghana, parlata soprattutto da persone di etnia Akan). In Ghana, ho ritrovato il senso di appartenenza, la parola casa. Dopotutto non salto agli occhi come avveniva negli USA e mi identifico con molte norme sociali e culturali. Qui, mi sento più a mio agio con la mia identità di donna nera.
[A questo link, la testimonianza originale in lingua inglese]