Lima. Quando si dice che l’erba del vicino é sempre più verde, bisognerebbe leggersi la classifica dei peggiori CEO a livello internazionale, stilata per la Confederazione Sindacale Internazionale (www.ituc-csi.org), organizzazione che rappresenta più di 180 milioni di lavoratori in tutto il pianeta.
Non sembrerebbero esserci italiani tra i primi 10 candidati – almeno per il 2014 – considerati fra i peggiori del mondo per quanto riguarda il mancato rispetto dei diritti dei lavoratori migranti o locali: C.Douglas McMillon, presidente di Wall-Mart Stores; Jamie Dimon, presidente di J.P. Morgan Chase; Lloyd Blankfein, presidente del Gruppo Goldman Sachs; Charles Koch, presidente di Koch Industries; Lee Kun-He, presidente del Gruppo Samsung; Ivan Glansberg, presidente di Glencore Xstrata; Rupert Murdoch, presidente e direttore generale di News Corp; Akbar Al Baker, presidente della compagnia aerea Qatar Airways. In cima alla classifica – porta a casa il primo premio – il signor Jeff Bezos, presidente di Amazon.
In questa inchiesta per Articolo21, abbiamo voluto sottolineare un dato allarmante, che molto spesso gli stereotipi e la cattiva informazione ci portano a sottovalutare. Pur esistendo nel mondo molte convenzioni e trattati multilaterali, non per ultimo la Convenzione sulla Protezione dei Diritti dei Lavoratori Migranti (1949) o la Convenzione Internazionale sulla Protezione dei Diritti dei Lavoratori Migranti e dei loro Familiari, adottata dall’ONU nel 1990 (www.ohchr.org), moltissimi sono i casi di abuso sui lavoratori migranti e locali, senza distinzione tra paesi democratici economicamente sviluppati o meno (come il caso di Amzon in Germania), tirannie, monarchie costituzionali o religiose. Sharan Burrow, Segretario Generale del sindacato internazionale, è molto esplicita sul tema del mancato rispetto dei diritti lavorativi «il potere corporativo è fuori controllo, fa paura ai governi, minaccia di andarsene, portando via gli ingenti capitali investiti nei mercati nazionali, i nostri governi danno più importanza al 1% di prepotenti che al 99% degli attori economici dei paesi».
E se questa è la situazione al livello internazionale o in paesi dove i diritti lavorativi dovrebbero essere maggiormente tutelati, almeno per quanto riguarda la tradizione e la storia della lotta sindacale che rappresentano, si pensi a proposito all’Inghilterra, agli Stati Uniti o alla Germania, figuriamoci in paesi come l’Italia o regioni del mondo come L’America Latina, dove l’illegalità o detto in parole povere “il lavoro nero”, sono il pane quotidiano, specialmente in questi tempi di crisi etica ed economica profonda.
Negli Stati Uniti, per esempio, l’Ufficio Statistico del Dipartimento del Lavoro del governo americano (www.bls.gov) ha pubblicato un interessante pdf riguardo alle caratteristiche della forza lavoro statunitense nel 2014. Circa 25,7 milioni di lavoratori erano migranti, quindi il 16,5% dell’intera forza lavoro del paese a stelle e strisce. I cosiddetti Hispanics o Latino Ethnicity sono stati il 48,3% della forza lavoro straniera, mentre gli asiatici (Asians) hanno raggiunto solo il 24,1% del totale dei lavoratori migranti. La differenza di salario, comparando la stessa categoria lavorativa, tra i lavoratori migranti e quelli “indigeni” – cioè i cittadini americani di tutte le etnie – è stata di quasi 200 dollari. La maggioranza di questi lavoratori migranti negli Stati Uniti ha un’età lavorativa compresa tra i 35 e i 54 anni, anche se sono aumentati i 65enni che scappano a casa dello Zio Tom per accumulare qualcosa per la loro pensione, da godersi poi al ritorno nei paesi d’origine. Si deve tener a mente che negli Stati Uniti ci sono stati più di 11 milioni di unauthorized inmigrants nel 2014 (soprattutto negli stati di Texas, California, Florida, New York, New Jersey e Illinois) detto in poche parole, gente illegale e senza documenti, alla mercé di qualsiasi datore di lavoro pronto a sfruttare braccia, gambe e cervello di persone che sotto minaccia di essere rimpatriate, non denunciano gli abusi. Dico anche cervelli e non a caso, perché non é una novità che spesso, per i lavori che richiedono una professionalità, un titolo di studio ed esperienze, si siano riscontrati casi di abusi verso lavoratori specializzati, migranti senza permesso di soggiorno per lavorare, ma in situazione talmente disperate da accettare un lavoro al “nero”. Nel territorio americano i lavoratori migranti occupano diverse categorie lavorative. Il 29,8% riveste un ruolo direttivo (management) o similare, incluso occupa posti di responsabilità professionale (architetti, ingegneri, contrattisti, avvocati, commercialisti ecc..). Il 25,1% lavora nel settore dei servizi (poste, telecomunicazioni tra i più diffusi); il 17,1% lavora nel settore vendite o come impiegati amministrativi. Il 15,2% dei lavoratori migranti negli USA lavora nel settore della produzione, trasporti e movimento materiali, mentre un 12,9% trova un’occupazione nel settore delle costruzioni en el mantenimento tecnico.
Sempre per ricordarci che i diritti si conquistano dal basso e non arrivano mai dall’alto, dalle convenzioni firmate in qualche ufficio di una grande organizzazione internazionale, abbiamo dato uno sguardo a NumbersUSA (A Lawer Immigration Levels, come recita il motto della pagina internet) e ai dati pubblicati dall’Ufficio Sicurezza del Territorio del governo americano (Homeland Security). Quasi la maggioranza di illegali e lavoratori migranti sono nati negli USA (9 milioni circa) e solo, per esempio, 900 mila sono latinoamericani di nascita. Cifre che definiscono ancor di più la gravità del fenomeno e che gridano ai governi dei paesi cosiddetti “sviluppati”, di adottare misure e azioni più chiare ed efficaci per il riconoscimenti dei diritti dei lavoratori migranti, specialmente per tutte quelle persone che vivono nel limbo, come nel caso degli Stati Uniti, paese che non ha mai ratificato né la Convenzione sui Lavoratori Migranti n. C097 del 1949 né la disposizione complementaria C143 del 1975 dell’Organizazzione Internazionale del Lavoro, ILO.
In merito alla situazione dei lavoratori migranti nel mondo e in occasione del Giorno Internazionale del Migrante (18 dicembre) per i 40 anni dall’adozione della Convenzione sui Lavoratori Migranti del 1975, abbiamo voluto approfondire lo scenario italiano e latinoamericano con l’architetto e pittore, José Luis Vertiz, facendoci raccontare la sua esperienza diretta di lavoratore migrante dal Perù e poi cittadino italiano che ritorna a Lima dopo due decenni nel bel paese.
Signor Vertiz, chi più di Lei può testimoniare il significato del termine “lavoratore migratorio”, presente nell’Articolo 2 della Convenzione Internazionale sulla Protezione dei Diritti di tutti i Lavoratori Migranti. Ci racconti la sua esperienza.
Ho vissuto in Italia per vent’anni, arrivai nel 1994 per fare un corso di post laurea all’Università di Roma La Sapienza, trovai lavoro senza troppe difficoltà – erano altri tempi senz’altro – ma con l’arrivo della crisi economica, persi il mio lavoro e, non trovando piú nuove opportunità lavorative, decisi di tornare in Perú.
Dopo 20 anni in Italia, è rientrato in Perù. Lei ha la cittadinanza italiana e quella peruviana. In base alla sua esperienza come migrante lavoratore, come “dipingerebbe” la situazione lavorativa in entrambi i paesi.
Se devo parlare della mia esperienza personale, la situazione lavorativa in Italia o perlomeno a Roma nel settore dell’architettura/edilizia, è davvero sconfortante: una volta uscito dal mercato del lavoro non riesci piú a inserirti mantenendo il tuo livello professionale. Mi è capitato di trovare lavori sottopagati e di svolgere mansioni al di sotto della mia esperienza.
Mi può raccontare almeno due esperienze professionali di rapporto lavorativo in “nero”, che ha dovuto vivere personalmente in Italia.
Mi sono ritrovato a dover accettare un lavoro di disegnatore in uno studio tecnico, ci facevano lavorare 50 ore alla settimana. Ci controllavano al “millimetro” la nostra produzione e venivamo spesso redarguiti per non aver prodotto a sufficienza. C’erano alcuni ragazzi che per raggiungere l’obiettivo della ditta non facevano nemmeno la pausa pranzo, mangiavano e lavoravano allo stesso tempo. La paga era di 800 euro al mese. Dopo trovai un altro lavoro ancora piú precario, era lo studio di un consorzio edilizio, dove mi davano praticamente una mancia, non un vero stipendio: questa era la situazione che mi ha costretto a ritornare in Perú.
Lei è peruviano di nascita. Ci può descrivere l’attuale sistema lavorativo vigente in Perù. Quali sono i problemi più sintomatici del sistema peruviano?
Dalla mia esperienza personale sono rientrato in un Perú dove, nonostante le difficoltà, trovi diverse occasioni per inserirti nel mercato del lavoro. Anch’io mi sono “reinventato” in un certo senso. Ho trovato lavoro nell’istruzione superiore, sono un docente universitario, attività che non avevo svolto prima. A proposito di questo, ricordo che uno degli ultimi tentativi di trovare un lavoro “dignitoso” a Roma fu recarmi dalla Preside di un instituto tecnológico, dove avevo fatto un corso per informarmi sulla possibilità per lavorare come docente: la Preside molto gentilmente mi indicó tutto l’iter burocratico che avrei dovuto seguire per restare “in attesa” di una remota possibilità di lavoro: come puoi immaginare, e lo dico con un’espressione molto italiana, “mi cascarono le braccia”.
Secondo Lei, l’Italia si sta compromettendo ad applicare “una política nazionale destinata a promuovere e garantire [..] l’uguaglianza di opportunità e di tratto in materia d’impiego e professione, sicurezza sociale, diritti sindacali e libertà individuali” per i lavoratori emigrati in Italia, secondo quanto prevede l’articolo 10 della C097 – Convenzione sui Lavoratori Migranti (1949), che il nostro paese ha ratificato?
Credo che in Italia ci siano delle normative già approvate per tutelare i diritti dei lavoratori, il problema è che non vengono applicate e non ci sono i controlli per garantire la loro applicazione. Comunque dalla mia esperienza in Italia, nel periodo in cui non avevo ancora la cittadinanza italiana, non ricordo di aver avuto un trattamento speciale da “lavoratore emigrato”, il mio contratto di lavoro era simile a quello dei miei colleghi italiani.
Il Perù non ha mai ratificato la Convenzione sui Lavoratori Migranti n. C097 (1949) e nemmeno la disposizione complementaria C143 (1975). Oggi che molti stranieri – in particolare europei – stanno venendo in Perù per cercare un futuro lavorativo migliore, uno strumento legislativo di carattere internazionale, sarebbe un passo avanti per l’apertura del paese andino verso i diritti internazionali dei lavoratori: oltrettuto il Perù è membro della ILO dal 1919 (www.ilo.org). Secondo il suo punto di vista, intendo da lavoratore migrante, come si lavora in Perù?
Il discorso è molto ampio. Se parliamo di lavoratori in possesso di una qualifica professionale, laureati per esempio, sono al corrente che alcuni albi professionali stanno cercando il modo di concedere una giusta equipollenza che però richiede un po’ di tempo, la procedura non è semplice. Questo mi sembra giusto perchè la stessa procedura esiste in diversi paesi del mondo. A primo acchito non sembra giusto, ma in realtà è un modo di tutelare i lavoratori peruviani, residenti e laureati in Perù, che si ritroverebbero senza la possibilità di lavorare a causa dell’ondata migratoria.
Avendo amici italiani e peruviani in entrambi i paesi, può raccontarci almeno due esperienze a Lei vicine, per capire meglio a cosa va incontro il lavoratore migrante che decide di trasferirsi all’estero.
Potrei raccontare la storia di una mia amica italo-peruviana che da molto tempo lavora in Italia. Lei è un architetto ed è libero-professionista. Diversi anni fa ha avviato uno studio d’architettura insieme con suo marito, che è italiano, anche lui architetto. Mi raccontava che negli ultimi anni il volume di lavoro si è ridotto moltissimo – si occupano di progetti di ristrutturazioni residenziali – e oggi cercano di tenere duro, lo studio continua a funzionare, a differenza di altri che hanno chiuso. Non ho esperienze a me vicine, ma ho avuto notizie che il settore del lavoro “domestico”, come l’assistenza agli anziani, fare le pulizie, ecc.. dove lavorano tanti peruviani emigrati in Italia non ha sofferto molto per la crisi economica. Al contrario, in Perù, ho conosciuto persone arrivate da pochi anni a questa parte che hanno intrapreso delle attivitá del settore della ristorazione. Mi hanno raccontato che agli inizi fu abbastanza difficile, ma adesso mi sembrano entusiasti dai risultati ottenuti.
Come ci si sente, tornando a casa dopo una “vita” passata lontano da costumi, usi e tradizioni, che fanno parte della sua metà peruviana, dato che l’altra è italiana? In Italia ha mai trovato o almeno si è mai avvicinato alla certezza di aver finalmente trovato una stabilità professionale come architetto e come pittore?
Devo dire la verità, nonostante la mia situazione lavorativa “fissa” – dopo si sarebbe rivelata poco “fissa” in realtà – non ho mai avuto la sensazione di avere la possibilità di un miglioramento del mio tenore di vita; con molti sacrifici e rinunce ho avuto una vita dignitosa. Ci fu un periodo in cui gli stipendi dei dipendenti dello studio furono ridotti con lo “stratagemma” del lavoro part-time, questo addirittura prima della batosta del 2012, in cui venni licenziato per una “ristrutturazione” dell’organico a causa della crisi. Ci fu sempre una sensazione di precarietà, nonostante il mio contratto fosse a tempo indeterminato, che comunque ebbe un termine quando aumentò la crisi economica in Italia. Per quanto riguarda la mia attività parallela come pittore, essendo un settore ancora più fragile dal punto di vista economico, l’ho considerato, sin dall’inizio, come un lavoro secondario. Mi diede alcune soddisfazioni, ma difficilmente in Italia mi sarei dedicato a tempo pieno all’arte.
Se dovesse descrivere con due parole il suo futuro, come si vede? In Perù o di nuovo “nomade” per lavoro, magari in un paese economicamente più attraente?
Mi vedo ormai stabile in Perù: per prima cosa ho un lavoro che mi piace veramente, e il lavoro che svolgo viene apprezzato da chi ha riposto fiducia in me. In più sono di nuovo vicino a parenti e vecchi amici, e mi fa molto piacere. Nonostante tutti i problemi che ci sono, ho trovato una grande vitalità e tanta volontà di fare cose concrete, non a caso il Perù viene indicato come uno dei paesi “emergenti” più interessanti in America Latina.
Pensa che oggi giorno i diritti dei lavoratori migranti e non abbiano perso importanza a livello mondiale, pur esistendo trattati e convenzioni a livello internazionale?
Penso che i diritti dei lavoratori dovrebbero essere alla base di un paese civile, probabilmente in alcuni paesi sono considerati più un intralcio che un modo di tutelare le condizioni di un lavoro giusto e dignitoso, forse per l’avidità di alcuni imprenditori che guardano soltanto ai propri interessi personali…ma ci sono situazioni in cui a volte i governi non sono stati capaci di creare le condizioni migliori, penso per esempio alle tasse troppo alte, che un datore di lavoro italiano deve pagare per i dipendenti. Se ne parlava spesso nei dibattiti televisivi, ma non credo sia cambiato qualcosa. Purtroppo, in Italia per cambiare le cose “in positivo”, serve troppo tempo.
@andreaalamanni