Le periferie, gli ultimi, i poveri, i deboli, la profezia dei quartieri disagiati e la necessita di portare la luce e il messaggio del Vangelo fra le tenebre della sofferenza e dell’abbandono: sono queste le ragioni che hanno indotto papa Francesco ad aprire la prima Porta Santa a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, nell’inferno del mondo, là dove l’AIDS fa stragi e migliaia di persone sono costrette a vivere in condizioni intollerabili. Bangui come Korogocho a Nairobi, con quella vergogna a cielo aperto della discarica di Dandora, la quale costituisce l’area più inquinata del pianeta; Bangui come emblema dell’ingiustizia e dell’alienazione degli esseri umani, dello sfruttamento e dell’indecente modello di sviluppo che sta conducendo l’Occidente sull’orlo del baratro dopo aver sprofondato nella miseria e nella disperazione chi ha avuto la sventura di nascere in un continente meraviglioso ma da sempre sfruttato, umiliato, ridotto in schiavitù, spartito e devastato dalla barbarie dei predatori e dal flagello di morbi incurabili come il già menzionato AIDS e l’ancor più pericolosa ebola.
“Vengo come pellegrino di pace” è stato il messaggio fortissimo del Pontefice: un uomo capace di andare a chiedere perdono per tutte le volte che la stessa Chiesa cattolica non è stata all’altezza di difendere i princìpi e i valori che l’avrebbero dovuta animare; un uomo capace di chinare lo sguardo sugli slum in cui è impossibile non provare rabbia verso la vita e ciò che essa rappresenta, col suo fardello di povertà, di violenza, di malvagità, di odio e di desolazione senza via d’uscita; un uomo che si è fatto carico anche di colpe non sue ed è andato a portare un messaggio di speranza, di bellezza, di profondità e grandezza spirituale nei gironi danteschi del mondo, là dove nessun politico potrebbe mettere piede, là dove nessuno di noi avrebbe il diritto di andare a spendere parole false, ipocrite e ridondanti.
Papa Francesco, il papa uomo, determinato a riannodare il filo spezzato del percorso conciliare interrottosi con la morte di Paolo VI, avvenuta nel 1978, e per questo pronto ad aprire il suo Giubileo della Misericordia nel cinquantesimo anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II. Un cammino interrotto, un processo fermatosi per troppo tempo, mentre il mondo scivolava inesorabilmente verso il liberismo selvaggio e il trionfo della disuguaglianza, con l’avidità elevata a valore e l’egoismo sfrenato a virtù, mentre si affermavano sulla scena mondiale personaggi abietti i cui disastri continueremo a pagarli ancora a lungo e la Chiesa stessa smarriva la strada e si chiudeva in un recinto di grettezza e autoreferenzialità che ha generato tutti gli scandali e i fenomeni corruttivi contro cui lo stesso Francesco, e prima di lui Benedetto XVI, si sta battendo da anni.
Papa Francesco e la potenza dei simboli, con l’auspicio di favorire un dialogo tra le diverse fedi in nome di quell’unico Dio che ciascuno ha il diritto di chiamare come vuole ma che non è diverso, come identico è il suo messaggio di pace, amore e fratellanza, a seconda della latitudine alla quale lo si prega.
Papa Francesco e il ricordo di una bellissima frase di Enzo Biagi: “Ho girato il mondo e ho imparato che tutti gli uomini piangono nella stessa maniera” e così pregano, amano, sperano, sognano e si augurano un avvenire migliore, meno iniquo, meno solitario, meno triste, meno afflitto da guerre, carestie e danni irreparabili all’ambiente e alle riserve naturali di un pianeta sempre più in affanno.
Papa Francesco e il Giubileo della Misericordia che si apre proprio mentre in una Parigi ancora ferita dagli attentati dello scorso 13 novembre e adesso scossa dall’avanzata del Front National di Marine Le Pen, i capi di Stato e di governo stanno tentando di trovare un accordo per ridurre le emissioni di gas serra e non distruggere definitivamente i fragilissimi equilibri sui quali si regge un mondo sfiancato da trent’anni di competizione sfrenata, esaltazione e accrescimento del divario fra ricchi e poveri e da una corsa verso il nulla di cui le nuove generazioni pagheranno a lungo le conseguenze.
Papa Francesco e il concetto di sacerdote come apostolo della parola di Dio, come portatore di una missione di solidarietà e di fratellanza, come esaltazione dell’apertura e del coraggio di andare oltre se stessi, le proprie convinzioni, i propri muri e i propri pregiudizi.
Papa Francesco che celebra un Dio d’Avvento, un Dio che ancora deve nascere e del quale pure si avverte forte e viva la presenza, un Dio che è nei nostri cuori sotto forma di condivisione e di rispetto reciproco, un Dio che si è fatto uomo e prosegue il proprio percorso sulle gambe di un pontefice che ha saputo fare altrettanto, ponendo il proprio sguardo al livello di chi non ha nulla ed innalzando un messaggio di carità e, per l’appunto, di misericordia che non può lasciarci indifferenti.
Papa Francesco e la lungimiranza di una Chiesa che è tornata ad essere il lievito di un progetto di accoglienza universale, povera tra i poveri, debole tra i deboli, terra e concime al tempo stesso, senza provare alcuna vergogna.
Papa Francesco, semplicemente un uomo venuto dalla fine del mondo per risvegliare un Occidente prigioniero della propria inconsistenza morale e spirituale.