Nel convegno di “Quadrifor” (istituto bilaterale per lo sviluppo della formazione dei quadri del terziario), tenutosi qualche giorno fa a Roma, sono emersi dati preoccupanti sulle culture digitali. Il rapporto sull’Italia dell’e–Leadership Scoreboard segnala un ritardo pesante nei riguardi dei cosiddetti digital soft skills, vale a dire nelle aree di informazione e comunicazione, di creazione di contenuti, di sicurezza e di risoluzione di problemi. E su 12 delle 16 competenze proposte ai “valutatori” dei manager le donne sono state considerate in maniera più positiva dei colleghi. Tutto ciò non stupisce. Se al termine digitale si toglie quel tanto di immaginifico che spesso lo circonda, se ne possono cogliere le opportunità. Siano queste ultime tecnologiche o, più ancora, sociali e organizzative.
L’era analogica si è basata su un sistema complesso di gerarchie, facile preda delle logiche maschili, mentre la stagione digitale rompe con un passato bloccato ed ingombrante. Si dischiudono maggiori possibilità per l’universo femminile, colto e di maggiore versatilità. Tuttavia, attenzione ai rischi, ben descritti da Marie Bénilde su Le Monde diplomatique di novembre. La “Gioiosa colonizzazione digitale” porta con sé enormi rischi di intrusione nella vita privata delle persone –oggi al massimo per il dramma del terrorismo fondamentalista- e di vittoria della versione tecnoliberista del capitalismo contemporaneo. Antidoti non ne mancano, come la sentenza pronunciata il 6 ottobre dalla corte di giustizia dell’Unione europea in merito al trasferimento dei dati svolto dai grandi aggregatori come Google. Ma è una questione politica, come dice il noto brano di Antonello Venditti.
E sì, perché la transizione tra i due mondi si colora ben diversamente a seconda delle strategie di chi governa. Gli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano hanno sentenziato: “Agenda digitale: niente più alibi”. Il 2016 dovrebbe essere l’anno del decollo. Però. Gli obiettivi della compagine di Renzi assomigliano pericolosamente alla piattaforma con cui si presentò l’esecutivo italiano alla conferenza sula società della conoscenza di Lisbona nel 2000: anagrafe unica, fascicolo sanitario elettronico, e così via. Insomma, persi quindici anni, con l’eventualità non remota di farsene scappare pure altri. Se è vero che finora l’Agenzia per l’Italia digitale ha passato il tempo soprattutto in un lungo atto di nascita, e che sulla banda larga e ultralarga è in corso un “Risiko”. A suggello e sintesi dello stato delle cose è arrivato – nel nobile scenario della Reggia di Veneria sabato 21 novembre- il meeting “Italian digital day”. Una sorta di prima della Scala sul versante tecnologico.
Purtroppo, secondo la grande parte degli osservatori, sotto il maquillage si è visto ben poco. Il digitale nell’epoca berlusconiana fu ridotto ad un aggettivo di televisione. Sotto il segno dell’attuale presidente del consiglio è una retorica nuovista buona a strappare qualche applauso, mentre nella legge di stabilità si tagliano gli investimenti per l’informatica. Persino la Rai, per bocca del direttore generale, avrà una direzione digitale. Come se fosse un’aggiunta e non una rivoluzione possibile del servizio pubblico. Mentre l’arretratezza si coglie immediatamente dai risultati delle inchieste sull’utilizzo non gratificante di Internet: scuole, aziende, pubblica amministrazione. Con i Digital Champions, cantori di qualcosa che non c’é. “We are not the champions”, per parafrasare il compianto Freddy Mercury.
Fonte: “Il Manifesto”