Un altro anno sta finendo, un altro anno senza pace in Darfur. In questa regione del Sudan dimenticata da tutti si continua a vivere nella paura e nella miseria.
A quasi 13 anni dall’inizio del conflitto le stime Onu parlano di oltre 300mila vittime e di circa 6 milioni di persone che affrontano la quotidianità solo grazie agli aiuti umanitari, di cui oltre il 30% ospitate nei campi gestiti dall’agenzia dell’Onu Ocha (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs).
Negli ultimi sei mesi del 2015 il numero dei nuovi profughi a causa della recrudescenza del conflitto, che ha registrato in molte aree il flusso di sfollati più consistente dal 2006 a oggi, è salito a 600mila rispetto ai 385mila del primo semestre.
La possibilità di assistenza delle centinaia di migliaia di nuovi profughi, per lo più donne e bambini, è a rischio in tutto il Darfur.
Le minacce sono sempre le stesse: insufficiente disponibilità d’acqua e di cibo, condizioni igienico sanitarie e sicurezza inadeguate. La mortalità continua a essere molto alta. In pochi superano i 50 anni mentre tra i bambini molti non raggiungono il sesto anno di vita. Malnutrizione e infezioni le principali cause di morte per i più piccoli.
Il settore sanità è quello che registra la maggiore criticità ed è considerato addirittura cronico dagli operatori umanitari sul campo che continuano a operare in un contesto difficile come testimoniano le continue espulsioni.
La protezione e la sicurezza sono del tutto insufficienti. Continuano a registrarsi scontri armati che coinvolgono i civili soprattutto nel Nord Darfur ed episodi di crimini di massa, in particolare stupri, usati come arma di guerra.
Da quando nel 2003 i Janjaweed (milizie arabe delle tribù nomadi, per lo più Baggara) hanno iniziato a seminare il terrore in tutta la regione, è stato un crescendo di violenze e orrori.
Gli Stati Uniti nel 2004 hanno denunciato che in Sudan si stava compiendo un “genocidio” e nel 2009 la Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato d’arresto per il presidente Omar Al-Bashir per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Nell’aprile di quest’anno Al-Bashir (sempre a piede libero) ha rivinto le elezioni con il 94,5% dei voti, consolidando il suo potere.
In un tale contesto le conseguenze per le popolazioni civili sudanesi sono devastanti.
La situazione umanitaria rimane precaria, l’esistenza al limite della sopravvivenza.
Le presidenziali del 2015 hanno conosciuto diffuse restrizioni imposte ai diritti politici, particolarmente alle libertà d’espressione, riunione e associazione, che hanno colpito le attività delle organizzazioni della società civile.
I conflitti armati e la mancanza di sicurezza continuano a provocare numerose violazioni dei diritti umani in molte zone. In Darfur, Southern Kordofan e Blue Nile, l’impatto devastante dei conflitti ricorrenti tra le forze governative ed i gruppi armati ribelli, degli scontri intertribali e del banditismo armato ha causato lo sfollamento su larga scala delle popolazioni civili ed una grave crisi umanitaria. Più di un milione di sfollati è rimasto intrappolato in aree inaccessibili dove non giunge alcuna assistenza umanitaria.
A fronte di questo quadro sconfortante, è chiaro che la situazione dei diritti umani in Sudan possa migliorare solo se sarà applicato il Documento di Doha per la Pace in Darfur, che costituisce un quadro normativo capace di favorire una pace durevole e la riconciliazione in quello Stato. Ma l’elemento essenziale appare sempre più l’atteggiamento della comunità internazionale, Ue e governo italiano compresi. Senza un sostegno tecnico e finanziario alle istituzioni nazionali per la difesa dei diritti umani e alla società civile, per costruire la capacità del Paese di proteggere i diritti dei propri cittadini. Infine, è necessario continuare a sostenere il dialogo nazionale per facilitare la ricerca della pace, della sicurezza, della stabilità e della riconciliazione in Sudan.