Il Partito Popolare, guidato dal cristiano-democratico Mariano Rajoy, ha perso le elezioni politiche in Spagna. E’ arrivato primo, certo, ma rispetto al 2011 è passato dal 44,6% al 28,7% dei suffragi, è sceso dai 186 seggi, e quindi dalla maggioranza assoluta, a 122 deputati. Una disfatta senza precedenti, nonostante i segnali di ripresa dell’economia, dopo il disastro della crisi iniziata nel 2008. Il PIL quest’anno arriverà al 3,1% e si avranno 600 mila occupati in più. Ma nel frattempo si è estesa la povertà, le discriminazioni si sono allargate tra una minoranza ricca e una grande maggioranza di spagnoli che oramai ha imboccato la scivolosa strada della soglia di emarginazione: nel 2014 il 30% degli iberici era a rischio povertà, cioè il 2% in più rispetto al 2013. In 400 mila, secondo gli ultimi dati statistici, vivono sotto la soglia della sopravvivenza, con meno di 300 euro al mese.
L’altro dramma, che il capo del governo conservatore e rigorista Rajoy non è riuscito a contrastare si chiama disoccupazione. A quanto sembra dai risultati elettorali, la sua campagna propagandistica tutta incentrata sulla ripresa e sull’uscita dalla crisi, attraverso mirabolanti misure, non ha convinto gli elettori spagnoli. Le sue ricette iperliberiste da convinto rigorista, studiate da BCE e Commissione Europea e poi adottate dal suo governo, non sono riuscite a sconfiggere uno dei tassi più alti di disoccupazione nell’Unione, dopo Grecia e Portogallo: il 21,2% della forza lavoro. Tra i giovani si arriva al 49%, mentre crescono sempre di più coloro che non cercano lavoro, i cosiddetti “inattivi”.
Da qualche anno a questa parte, la Spagna si dimostra un laboratorio di esperimenti politici innovativi molto proficui per il futuro della sinistra europea, iniziati con il movimento degli Indignados e poi proseguito con la nascita di due organizzazioni che hanno rotto il panorama tradizionale, bipartitico del “dopo Franco”: il partito della sinistra Podemos, guidato dal giovane Pablo Iglesias, e quello centrista liberal-progressista dei Ciudadanos, con a capo il coetaneo Albert Rivera.
Podemos, dopo le vittorie alle ultime elezioni amministrative, nelle quali ha conquistato le due capitali, la nazionale Madrid e quella della Catalogna, Barcellona (eleggendo a sindaci due donne), domenica ha riportato una vittoria storica: ha ottenuto il 20,7% dei voti e 69 seggi, arrivando ad un’incollatura dai socialisti del PSOE di Pedro Sanchez che, invece, hanno ottenuto il loro peggior risultato dalle prime elezioni libere del 1975 (sono scesi dal 28,7% del 2011 al 22% e sono passati da 110 seggi a 91).
Dal canto suo, i Ciudadanos, arrivati quarti, si sono affermati con un sorprendente 14% e 40 seggi. Ora, la Spagna dovrà fare i conti con un’instabilità politica che non conosceva, alla quale non è abituata e che non è detto si possa risolvere con una “Grande coalizione” tra popolari e socialisti, magari con la “benevole astensione” di Podemos e Ciudadanos, in nome dell’emergenza e dell’unità del regno. Le “Grosse Koalition”, benedette dagli eurocrati di Bruxelles e dai salotti finanziari europei ed americani, come nella Germania della Merkel, appiattiscono le differenze tra le grandi famiglie politiche (conservatori e socialdemocratici), premia sempre le forze di centrodestra, non risolve alla radice i mali delle diseguaglianze sociali ed economiche, allontana l’opinione pubblica dalla partecipazione, crea movimenti “anti-casta”, xenofobi, regionalisti ed euroscettici, consolida l’astensionismo come ultima risorsa anti-sistema.
Difatti, la disaffezione degli iberici alle elezioni si va confermando: questa volta, rispetto al 2011, su 36,5 milioni di elettori ha votato il 58,3%, un mezzo punto in più, senza però contare ancora le schede nulle e bianche. Una parte consistente dell’elettorato, insomma, un 45% circa non è attratta neppure dalle due nuove aggregazioni come Podemos e Ciudadanos, mentre in Catalogna e nella regione Basca crescono le inquietudini secessionistiche, come in Scozia, in Bretagna e Corsica.
Iglesias e Rivera non intendono però fare da stampella ad un governo di “emergenza nazionale”, insieme ai Popolari di Rajoy e ai socialisti di Sanchez: un esecutivo delle “larghe intese” al quale affidano le proprie speranze conservative e rigoriste le cancellerie europee, a partire dalla tedesca Merkel per passare dal presidente della Commissione Junker a quello francese Hollande e all’italiano Renzi. L’altro scenario che potrebbe appalesarsi, invece, è quello di una maggioranza composita, arcobaleno, formata da Podemos, socialisti, Ciudadanos e i 17 deputati indipendentisti catalani di sinistra e di centro (con a capo il presidente secessionista della regione Artur Mas).
Non è una soluzione che potrebbe essere digerita dall’establishment economico-finanziario e politico del vecchio continente, anche perché sia i Ciudadanos sia i secessionisti catalani di Mas non amano certo le ricette liberiste di Bruxelles: sono piuttosto dei “cani sciolti”, non assimilabili ad altre formazioni “antisistema” che si aggirano per l’Europa in crisi. Non si possono identificare né con i “grillini” e i leghisti italiani, né con il Fronte Nazionale francese e neppure con l’UKIP di Nigel Farage in Gran Bretagna.
Dal crogiuolo iberico, in realtà, fuoriesce un magma ancora indecifrabile, ma senz’altro stimolante per il futuro della sinistra europea: un percorso inesplorato e irto di difficoltà, eppure necessario per uscire dalla palude in cui i tanti partiti, partitini e movimenti sparsi per il continente sono tuttora invischiati. Orfani delle vecchie ideologie marxiste e socialiste del Novecento, scottati dal trasformismo del laburismo filo-liberista che ha soggiogato Tony Blair, Gerhard Schroeder, fino ad Hollande e Renzi, la sinistra europea è in cammino “in cerca d’autore”, ma con alcuni capisaldi da cui ripartire: nuovo europeismo, difesa del welfare state, politiche economiche sostenibili, ricette finanziarie keynesiane, coniugando solidarietà con spirito imprenditoriale, profitto con equità fiscale.
E’ possibile una nuova alba? Per gli spagnoli sembrerebbe proprio di sì. Dopo l’indignazione è forse venuta l’ora del “possiamo cambiare”.