Santo Stefano, 26 dicembre 2015: nelle Filippine, nell’isola di Mindanao, almeno nove persone vengono uccise dai militanti jihadisti dei Combattenti islamici per la libertà. I nove vengono ammazzati perché sono cristiani.
Ora, sia chiaro, il problema non è solo questo, cioè che a morire siano stati nove cristiani. Altrove nel mondo si viene ammazzati per la stessa ragione. In altri luoghi si muore perché si è islamici, o ebrei o omossessuali, insomma per altri mille motivi.
Quello colpisce di questa notizia del 26 dicembre è l’ insieme di informazioni che mancano. La prima è che nelle Filippine, Paese meta di tanti turisti, da 60 anni si combattono due feroci guerre interne, con migliaia di morti e altrettanti sfollati. Una è fra il governo centrale e le formazioni comuniste che vorrebbero rovesciarlo. L’altra sempre fra il governo di Manila e gli indipendentisti islamici delle isole del Sud. Vorrebbero l’indipendenza e sono loro – almeno parte di loro – ad avere ucciso. Di queste due guerre, in atto da quasi sei decenni, non si parla mai. I turisti vanno nelle Filippine, si innamorano o meno del posto, ma non sanno di essere in un Paese in guerra. Nessuno li informa, loro non si interessano alla cosa.
La seconda informazione che andrebbe messa in rilievo è che alla fine del 2014 il governo filippino avrebbe raggiunto un accordo con gli indipendentisti del Mindanao,- per capirci, le isole del Sud del Paese di cui sopra – grazie ad una mediazione internazionale. In teoria, gli indipendentisti avrebbero accettato una larga autonomia amministrativa – tutelata dalla Malesia – in cambio del cessate il fuoco. In pratica, il 26 dicembre 2015 qualcuno ha ancora ucciso, segno che l’intesa è saltata oppure che c’è chi non l’ha accettata e ancora combatte. Bene: nelle poche righe uscite sulla stampa nazionale, non vi era nemmeno il più piccolo accenno a tutto questo. La notizia era lì, secca e drammatica: uccisi nove cristiani. Ma era completamente fuori contesto, senza capo o coda.
Il “caso Filippine” non è unico, ma è esemplare. Delle guerre in corso nel mondo si continua a non parlare e quando se ne parla, è come se piovessero, improvvise, da cielo. Sono 33, sono ovunque, sono spesso vicinissime a noi, eppure le ignoriamo.
Vero, non è assoluto il silenzio. Sappiamo più o meno quello che accade fra Israele e Palestina, non ignoriamo che in Siria si combatte da cinque anni, conosciamo la crisi della Libia: e poi? Dell’Ucraina siamo certi di ricordarci? Della Repubblica Democratica del Congo – con i suoi 8 milioni di morti in vent’anni – cosa sappiamo? Del milione di profughi in fuga dal Sud Sudan verso l’Uganda abbiamo notizia? La risposta è retorica quanto lo sono queste domande: no, non sappiamo nulla.
Il 2015 è stato un anno durissimo, per il Pianeta. Il Vicino Oriente, con la crisi militare e politica creata dall’arrivo dell’Isis, è un campo di battaglia permanente, in cui si scontrano potenze mondiali, medie e eserciti e milizie assolutamente locali. Un esempio di “glocal” inquietante. Se ci pensate è una piccola guerra mondiale concentrata in poche migliaia di chilometri quadrati. I confini e il futuro di Paesi che abbiamo conosciuto, Siria e Iraq ad esempio, sono destinati a mutare per sempre. In Ucraina ancora si muore, così come in Nigeria, nella Repubblica Centrafricana, in Mali. Ovunque le guerre sono combattute sempre e comunque per il controllo di risorse fondamentali: cibo, acqua, materie prime. E tutto mentre restano pesanti gli squilibri:128milioni di individui, controllano il 60 per cento del Pil mondiale.
Di tutto questo sappiamo poco, parliamo poco. Eppure, senza saperlo ci confrontiamo con questi problemi, anzi con questi fatti, ogni giorno. Ogni giorno, discutiamo della questione dell’arrivo di richiedenti asilo dalle zone di guerra. Ogni giorno, un po’ dei nostri soldi finiscono nelle zone di conflitto per mantenere le nostre forze armate all’estero: ci costano due miliardi di euro l’anno, quanto i tagli alla sanità in Finanziaria.
Dobbiamo saperne di più e il 2016 potrebbe essere l’anno buono per cominciare a capire l’importanza di queste informazioni, di queste notizie. Potrebbe essere il momento per chiedere al servizio pubblico televisivo di smetterla di programmare nel cuore della notte le rubriche che parlano del mondo. Potrebbe essere l’ora per pretendere dagli editori che sulle prime pagine dei quotidiani non si parli sempre e solo del pettegolezzo politico locale. Sapere cosa accade nel mondo è fondamentale per ognuno di noi. Ci permette di decidere che fare, come agire. Ci regala libertà, perché anche per la pace e la democrazia il peggior nemico è il silenzio.