Vent’anni dalla scomparsa di Yitzhak Rabin, vent’anni dal suo martirio ad opera di un colono ebreo esagitato ed estremista, vent’anni dal dolore collettivo che questa notizia suscitò in tutto il mondo, lasciando sgomenti quanti avevano creduto nei princìpi della giustizia e della pace.
Vent’anni e sembra ieri, al cospetto della martoriata terra di Palestina e dello Stato ebraico sconvolto dai lutti e dalle violenze che l’azione politica e militare di Netanyahu, da sempre arcinemico di Rabin e della sua visione pacifista della questione mediorientale, non fa altro che stimolare per trarne linfa vitale per poter proseguire nella sua opera di emarginazione e di annientamento del popolo palestinese.
Vent’anni e l’amara sensazione che il destino dei due protagonisti di quella stagione che fece sperare il mondo, con gli Accordi di Oslo che fruttarono a entrambi il premio Nobel per la Pace, sia corso in parallelo fino a intrecciarsi tragicamente, come se esistesse una regia occulta degli scontri e del conflitto perpetuo alla quale non faceva gioco l’orizzonte di una pace duratura, di una convivenza civile e di un confronto non più segnato dall’odio e dal pregiudizio etnico.
Yitzhak Rabin e Yasser Arafat: due condottieri, due punti di riferimento per i rispettivi popoli, due emblemi di giustizia e di uguaglianza, due modelli per un’intera regione, oggi attraversata da tensioni e contrasti apparentemente insanabili, ma soprattutto due esempi che avrebbero potuto fare scuola e porsi come modelli per la risoluzione di altre controversie che affliggono da sempre le polveriere del mondo.
Per questo sono stati vittime di una sorte che molti osservatori considerano analoga, fermati nel momento in cui il loro sogno stava per trasformarsi in realtà e poi, come spesso accade, trasformati in santini da venerare e commemorare con somma ipocrisia all’occorrenza, stando ben attenti a ignorare tutti i loro insegnamenti affinché, per l’appunto, non siano d’esempio a qualche altro folle visionario che vorrebbe un pianeta senza guerre, un Medio Oriente senza barbarie e un Occidente che producesse armi unicamente per scopi difensivi e non per alimentare i conflitti dai quali trae ricchezze e, talvolta, persino finanziamenti a vantaggio di una politica indegna.
Vent’anni dall’assassinio, a Tel Aviv, di un uomo che, dopo essere stato un grande combattente, aveva deciso, in vecchiaia, di spendere il proprio prestigio e la credibilità acquisita agli occhi del popolo israeliano in tanti anni di lotta in difesa della sua sicurezza per condurlo verso un orizzonte alternativo di giustizia e di uguaglianza nelle opportunità.
Vent’anni, già vent’anni ed è inevitabile, dovendo commentare ogni giorno la tragedia derivata da quell’omicidio, fermarsi a riflettere su quanto avrebbe potuto essere diversa la storia di quella zona del mondo se solo il 4 novembre 1995 i tre proiettili di Yigal Amir non fossero andati a segno.
Vent’anni e la spaventosa convinzione che molto di ciò che è accaduto in seguito è accaduto perché qualcuno, molti, poteri occulti e capaci di condizionare il dibattito pubblico e il corso degli eventi, volevano esattamente che accadesse: dalla Seconda Intifada all’incendio di Gaza e della Cisgiordania, fino alla barbarie di questa Terza Intifada dei disperati, detta anche “Intifada dei coltelli”, condotta per lo più da giovani senza idee, senza speranze e senza prospettive, i quali ricorrono al gesto feroce e all’attacco indiscriminato contro cittadini ebrei per sfogare la propria frustrazione e la propria rabbia senza alcuna via di sbocco.
Vent’anni e la certezza che con la morte di Rabin non sia caduto solo un uomo ma una precisa visione del mondo, una direzione di marcia, un orizzonte, uno sguardo lungimirante, un pensiero lungo e un’illusione di riscatto e di cammino collettivo verso una normalità democratica basata sulla convivenza armoniosa e non sul sangue, sul concetto imprescindibile di “due popoli-due stati”, su un percorso di dignità e di autodeterminazione dei popoli, su una presa di coscienza da parte della comunità internazionale dell’unicità di Israele e del suo diritto a vivere in pace e sul riconoscimento di una nazione, la Palestina, che negli ultimi due decenni è stata, invece, sempre più calpestata, umiliata e confinata in una sorta di ghetto.
Vent’anni e una sconfitta globale della quale paghiamo tutti le conseguenze, con l’instabilità che pervade le nostre vite, con l’imbarbarimento del dibattito in ambito internazionale e con l’odio che Israele attrae su di sé a causa delle vergognose iniziative del peggior governo della sua storia, purtroppo riconfermato solo pochi mesi fa.
Vent’anni e un processo interrotto, un sogno infranto, una promessa tradita; vent’anni dopo, una piazza gremita per ricordare e per riflettere, per capire e per rimettersi in cammino.
Vent’anni e tanti radiosi volti di ragazzi e ragazze nei cui sguardi si leggeva un immenso desiderio di pace e d’armonia, di gioia, di bellezza, di rinascita.
“Lasciate sorgere il sole, cantate un canto alla pace” scandiva Rabin la sera in cui venne ucciso, lasciandosi travolgere dall’entusiasmo di una piazza assetata di cambiamento e di futuro, prima che quel sole si spegnesse, quel canto si esaurisse e il mondo si riscoprisse drammaticamente fragile e in balia del peggior fondamentalismo.