Venerdì sera a Parigi ero fuori. In un bar. La prima serata con gli amici dopo la nascita di mia figlia Stella. Una serata che avevo pregustato a lungo. Avevo voglia di rivedere volti cari. Ridere. Bere una birra di troppo. “Faire la fete”, come dicono i francesi. Respirare l’aria di questo autunno stranamente tiepido a Parigi. Abbiamo giocato al biliardino e siamo andati a mangiare una pizza. Abbiamo riso per battute stupide e parlato un po’ troppo forte per strada. Abbiamo incontrato gente. Fumato sigarette davanti al ristorante e scambiato chiacchiere con persone che non conoscevamo. Una serata come tante altre, a Parigi. O a Londra. Roma. Milano…
E poi, all’improvviso, i volti impietriti, gli occhi spiazzati. I telefonini alla mano. E un macigno in petto. Non è possibile. Sta succedendo. Di nuovo. E di nuovo quel silenzio… un silenzio cosi intenso da diventare rumoroso. Spezzato da una voce “stanno sparando”. Il pizzaiolo napoletano inizia a sbraitare contro questo “paese di merda”, dice. “Me ne voglio torna’ a’ casa mia”. E poi gli elicotteri, le sirene.
Quel silenzio il giorno della manifestazione per Charlie Hebdo non me lo dimenticherò mai. Mi si è impresso nelle orecchie e nelle tempie. Una folla immensa di persone radunate. In silenzio. Un silenzio incongruo. Un silenzio pesante. Un silenzio assordante. Un silenzio che non avrei voluto conoscere. Un silenzio che ti cambia per sempre. Un silenzio da cui non è più possibile tornare indietro. Un silenzio che sancisce la fine dell’innocenza. Della spensieratezza. Non saremo mai più gli stessi. Pensai quel giorno in Place de la Nation neanche un anno fa.
Ma l’avevamo promesso e l’abbiamo fatto: ci siamo rialzati. Ci siamo uniti e ci siamo abbracciati. Abbiamo pianto insieme e abbiamo deciso di continuare a vivere. Uscire. Andare a fare la spesa. Portare i bambini a scuola…. Non avevamo dimenticato, perché non si dimentica l’orrore. Ma la vita aveva ripreso il suo corso. Ci eravamo abituati a mostrare i documenti per entrare in ospedale come se fosse sempre stato cosi. Era ormai diventato normale accompagnare i bambini a scuola senza poter entrare nelle classi. Quasi ormai in metropolitana non ci pensavamo più e avevamo ricominciato a innervosirci per un posto a sedere. O a spiare la copertina del libro del tizio seduto difronte a noi.
Ci eravamo rialzati. Ma ieri ci hanno rimesso in ginocchio.
Stamattina le voci mi arrivavano soffuse. Mio figlio Matteo raccontava un brutto sogno al papà. L’odore del pane tostato. Stella che gorgheggiava. Un dormiveglia nebbioso. Attonito. Confuso. Dalla finestra ho guardato per strada. Un bar aperto. L’atro no. Pochi passanti. Mi sono seduta a colazione con la mia famiglia e ho cercato le parole. Non le ho trovate. Durante la giornata ho pianto. Mi sono incazzata. Ho guardato molto il mio cellulare. E ho chiesto scusa. Scusa ai miei genitori per lo strazio di vivere tutto questo a distanza e non potermi abbracciare. Scusa a mio marito perché non mi sento abbastanza forte. Scusa ai miei figli per questo mondo che non ho scelto. Per questo orrore che non volevo per loro. Scusa perché non lo so fare. Proprio non lo so come si fa a dire a un bambino che oggi, a Parigi, si muore a causa di un disegno. O di una birra fuori con gli amici.
Essere una mamma a Parigi oggi, io non l’ho saputo fare.