«La legge delega sulle intercettazioni ha la funzione di decontestualizzare le circostanze di fatto che emergono dall’indagine penale, di rendere il controllo di legittimità su un’indagine penale del tutto inefficace e ha, quindi, la funzione di abbassare, di affievolire il controllo dell’informazione sull’esercizio dei poteri pubblici»: a parlare ad Articolo 21 di una libertà di informazione palesemente e pesantemente sotto attacco è Carlo Bonini, giornalista di La Repubblica, tra i 78 cronisti denunciati dalla Camera penale di Roma per aver pubblicato stralci di intercettazioni di Mafia Capitale. Senza il lavoro severo e meticoloso di quei giornalisti non avremmo mai conosciuto e disprezzato fino in fondo il marcio del sistema criminale che reggeva Roma, non avremmo mai saputo di un Salvatore Buzzi come Re Mida che trasforma la disperazione dei migranti in una miniera d’oro.
78 giornalisti e 18 direttori denunciati per la pubblicazione di intercettazioni di mafia capitale. Che cosa cercano di ottenere?
Credo che gli avvocati banalmente pensino di accreditare l’idea che Roma non possa essere la città in cui celebrare questo processo perché non c’è la serenità e l’imparzialità del giudice è stata compromessa da questa asserita violazione del segreto istruttorio. Cosa che peraltro non è, perché le cronache testimoniato di atti regolarmente e ritualmente depositati dalle parti, quindi non esisteva più nessun tipo di segreto. È importante porre l’attenzione, inoltre, su quello che questa iniziativa rappresenta: c’è in questa iniziativa un’idea, un modo di intendere il ruolo della stampa, dell’informazione piuttosto singolare. Non fosse altro perché in quel processo, come documentano le intercettazioni, Carminati da libero – tanto per dirne una – minacciava e auspicava che a un collega – Lirio Abbate del L’Espresso – venissero spaccate le ossa, e non perché pubblicasse atti giudiziari, ma perché, facendo il suo mestiere, aveva raccontato con anticipo e in anticipo quello che stava succedendo a Roma, quindi il ruolo che Carminati aveva assunto negli equilibri della criminalità organizzata a Roma. Abbate aveva fatto il suo mestiere di giornalista. Non ho sentito in questi giorni nessun avvocato indignarsi, scandalizzarsi per quello che in quegli atti era scritto. Nel caso specifico sono 78 i giornalisti denunciati e 18 i direttori di testata. Non so di questi 78 quanti poi appartengano a testate nazionali e hanno l’agio di potersi difendere con avvocati del gruppo editoriale, e quindi quanti colleghi hanno le spalle sufficientemente larghe per reggere un procedimento di un esposto tanto infondato quanto noioso. Gli esposti danno luogo all’avvio a procedimenti penali che pretendono la presenza di avvocati che vanno pagati come professionisti. Questa evidentemente non è una novità del processo di Mafia Capitale, ma ormai è la regola nel nostro Paese. Tanto più odioso in quanto in questa fase particolare del mercato, di transizione, di crisi dell’editoria, il numero di colleghi che non ha una rete legale sufficientemente robusta si è moltiplicato e questo è oggettivamente un deterrente ad un esercizio pieno e libero del diritto di cronaca.
La debolezza del sistema giornalistico passa anche per il cosiddetto “caporalato” dell’informazione che influisce sulla deprecabile posizione dell’informazione italiana nella classifica mondiale della libertà di stampa stilata da Reporters Sans Frontières.
C’è una debolezza che è figlia dello stato attuale del mercato attuale e della qualità dei contratti che legano i professionisti ai gruppi per cui lavorano. Dall’altra c’è una sostanziale sottovalutazione che questo comporta: non mi pare – con luminose eccezioni – che ci sia complessivamente la percezione diffusa che questo tiene alla qualità della democrazia. In una democrazia sana, robusta l’informazione è in salute e essere in salute significa essere in grado di esercitare fino in fondo la propria funzione di controllo di poteri pubblici e privati.
Lei ha detto che i giornalisti in Italia non valgono nulla. Quanto la querela temeraria incide sulla professione giornalistica?
Molto. Facendo un calcolo empirico e puramente induttivo sulla mia situazione: nove volte su dieci la querela che viene presentata per contestare o lamentare un danno con la diffamazione nei miei pezzi è del tutto strumentale o temeraria, infatti si conclude quasi sempre con una assoluzione in una fase delle indagini preliminari o di fronte al gip o già in primo grado. Quindi delle due l’una: o i tribunali italiani sono corrivi con la stampa quotidiana e con i giornalisti oppure, e mi sembra più verosimile, il livello di fondatezza delle querele è piuttosto basso. E può essere così basso proprio perché nessuno paga mai dazio, nessuno è tenuto mai a rispondere della temerarietà.
A tal proposito si proponeva il coinvolgimento della magistratura in questa battaglia alle querele temerarie. Come aiuterebbe?
La magistratura fa il suo mestiere ed è evidente che la magistratura penale nel sistema in cui esiste l’obbligatorietà dell’azione penale deve accertarsi che un esposto non sia manifestamente infondato, che non abbia i caratteri e la natura dell’inverosimiglianza. Il magistrato penale è obbligato a procedere e, infatti, procede. E il magistrato civile lo stesso di fronte a un atto di citazione che non abbia, appunto, caratteristiche di manifesta infondatezza. Il problema è che i giornalisti dovrebbero cominciare a darsi uno strumento, delle risorse per rispondere in modo sostanziale, serio al problema. E il modo di rispondere è, come mi è capitato di suggerire, di sostituire l’attuale sportello di sostegno ai colleghi meno tutelati nei procedimenti per diffamazione – che ha una dotazione modesta e una natura più simbolica che concreta – con un fondo di garanzia che venga alimentato da versamenti in parte volontari, in parte obbligatori degli iscritti al sindacato e che con queste risorse, per esempio, si decida anche di coinvolgere penalisti o civilisti di vaglio, di rango perché il sindacato, i singoli colleghi possano promuovere singole cause di convenzionale, cioè singoli atti in cui si rende conto soprattutto dei casi più evidenti della temerarietà delle cause promosse contro i giornalisti. Io credo che questo aiuterebbe non solo i colleghi in questione coinvolti nelle specifiche vicende, ma aiuterebbe probabilmente a diffondere la consapevolezza che esiste un problema e che quel problema riguarda tutti, perché riguarda la libertà della nostra informazione e quindi riguarda la qualità della democrazia.
A proposito della legge, da una parte la querela temeraria, dall’altra una norma che affossa la libertà di informazione con un freno alla pubblicazione delle intercettazioni. Si impedisce in qualche modo di guardare nelle stanze della politica e di informare i cittadini, compito per antonomasia del giornalista.
La legge delega sulla riforma delle intercettazioni mi sembra nulla di nuovo sotto il sole nel senso, nel significato e negli obiettivi che questa riforma si prefigge, e cioè aumentare il già consistente limite di segretezza rispetto ad atti processuali ancorché non più protetti dal segreto istruttorio, in nome di una malintesa concezione della privacy. La ratio del segreto istruttorio – questo non lo ricorda mai nessuno perché forse non fa comodo ricordarlo o forse perché in molti non lo sanno – non è la privacy dell’indagato, ma è l’efficienza dell’indagine. L’indagine è segreta perché se fosse pubblica perderebbe qualunque efficacia dal punto di vista della genuinità dell’acquisizione della prova, della tempestività dell’acquisizione della prova. Quindi la segretezza dell’indagine è tutela, è strumento, è garanzia dell’efficacia e della genuinità dell’acquisizione della prova. Solo questo è il motivo per cui l’indagine penale è segreta. Nel momento in cui l’indagine penale cessa o nel momento in cui nella fase dell’indagine preliminare questo segreto cade perché le circostanze acquisite da un’inchiesta vengono poste a conoscenza del destinatario di quell’indagine, cessa quel tipo di tutela. Quindi il diritto fondamentale ad essere informati e ad informare protetto dall’Articolo 21 della Costituzione opera nella sua pienezza. La legge delega sulle intercettazioni ha la funzione di decontestualizzare le circostanze di fatto che emergono dall’indagine penale, di rendere il controllo di legittimità su un’indagine penale del tutto inefficace e ha, quindi, la funzione di abbassare, di affievolire il controllo dell’informazione sull’esercizio dei poteri pubblici, nonché su quelli privati. Peraltro segnalo – ma anche questa purtroppo non è una novità – che questa questione delle intercettazioni si è regolarmente posta ogni qualvolta che un’indagine penale abbia incrociato i destini politici di un uomo di governo, di un rappresentante di un partito di maggioranza o di opposizione. La riforma delle intercettazioni telefoniche è figlia dell’inchiesta sui grandi appalti che ha travolto politicamente l’allora ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi. Se non ci fosse stato il caso Lupi, probabilmente non staremmo discutendo dell’ennesimo legge delega per la riforma delle intercettazioni telefoniche. Questo dovrebbe dirla lunga su quale è l’intenzione neppure tanto recondita, ma dichiarata del potere legislativo, del potere esecutivo di questo ennesimo sforzo di svuotare di senso l’esercizio della funzione di una libera informazione.