Un’altra pagina nera per la libertà di stampa. Altri due giornalisti arrestati nella Turchia di Recep Tayyip Erdoğan. E questa volta rischiano l’ergastolo. Si tratta di Can Dündar (nella foto) – direttore del quotidiano d’opposizione “Cumhuriyet”, famoso intellettuale, produttore televisivo e autore di più di 20 libri – e di Erdem Gül, a capo della redazione di Ankara. Con una loro inchiesta svelarono un presunto passaggio di carichi di armi dalla Turchia alla Siria su camion dai servizi segreti turchi. La notizia fu pubblicata alla vigilia delle scorse elezioni, il 7 giugno, scatenando la durissima reazione del presidente Erdoğan che minacciò direttamente i giornalisti: “pagheranno un caro prezzo”, disse, firmando in prima persona la richiesta d’arresto.
Le accuse della procura di Istanbul sono pesantissime: appartenenza ad organizzazione terroristica, spionaggio e rilevazione di documenti governativi segreti. In quell’articolo i due giornalisti raccontavano di aiuti del governo turco ai gruppi combattenti oltre confine, gruppi non meglio identificati (i gruppi turkmeni chiamati in causa dal governo negarono di aver ricevuto quel tipo di aiuti). Pubblicarono foto di vari camion che, a inizio 2014, trasportavano armi verso il confine con l’aiuto del MiT, il servizio di intelligence turco. I camion in questione furono bloccati dai gendarmi (Jandarma) per un controllo. Sembra che le foto siano state scattate proprio da loro; controllando i camion vicino al confine avevano scoperto, nascoste sotto i cartoni di medicine, armi pesanti. Il governo aveva negato tutto sostenendo che a bordo c’erano solo aiuti umanitari. Un giudice su richiesta del governo aveva imposto la censura alla stampa sulla vicenda e i gendarmi erano stati prima rimossi poi arrestati per spionaggio.
Erdoğan è stato più volte accusato di aiutare in Siria anche i gruppi armati jihadisti, Isis e Al Nusra, con l’obiettivo di fare cadere Bashar al Assad per sostituirlo con i Fratelli Musulmani. Accuse che il governo di Ankara ha sempre negato, ma che quelle foto rimettevano in discussione. I due giornalisti sono accusati di terrorismo poiché, secondo l’accusa, avrebbero collaborato con FETÖ, l’organizzazione di Fetullah Gulen, proprietario di diverse testate di opposizione (prima alleato del presidente e oggi suo acerrimo nemico), definita terroristica dal governo turco.
All’indomani della richiesta di arresto, Dündar in un’intervista a SkyTg24 dichiarò: “Tu sei libero di scrivere ciò che vuoi in Turchia fino a quando sei pronto a pagarne il prezzo. E il prezzo è alto: potresti essere ucciso da qualcuno o passare il resto della tua vita in galera o quantomeno trovarti davanti a una Corte di Giustizia. Non è mai stato così difficile in Turchia il giornalista. Io ero giornalista anche durante il colpo di Stato, ma questo tuttavia il periodo peggiore per la libertà di stampa. Faccio il giornalista da 35 anni e prima di adesso non mi era capitato di essere minacciato direttamente dal presidente della Repubblica”.
In questo caso si contesta non un’opinione, ma il contenuto giornalistico di un’inchiesta, l’essenza stessa del giornalismo, inteso come cane da guardia del potere. Dündar ha dichiarato di essere onorato dell’arresto: “difenderemo così il giornalismo in Turchia”, ha detto. Intanto, però, i due giornalisti rischiano l’ergastolo. Un rischio a cui noi colleghi dobbiamo dare spazio ed eco. Così meriterebbe inchieste indipendenti quel confine tra Siria e Turchia. Un confine permeabile, attraverso il quale dossier di diverse intelligence parlano anche di massiccio passaggio del petrolio che Isis estrae dai pozzi dei territori che ha conquistato, a Mosul come a Raqqua, vendendolo poi sottocosto. Quel confine da cui sono passati anche numerosi jihadisti affiliati all’Isis, poi arrivati in Europa.