“Erano poco più che ragazzini,
Erano tutti figli come noi,
C’hanno lasciato tanto da lottare,
Le lacrime di ieri so’ rimaste qua
Figli di questa Italia maledetta,
Figli di questi anni amari e bui,
E chi pulì quel sangue in tutta fretta,
Quei bei sorrisi non cancellerà”
Figli come noi, Il Muro del Canto
Tante voci, tante lacrime trattenute per smantellare finalmente, una parola per volta, la figura sapientemente costruita di uno Stefano mostro, quello che, ossessionato dalla ricerca di mondi artificiali – come dicono i suoi compagni –, se la cercò, quella morte. Il Primo Memorial Stefano Cucchi è questo: scavare sotto cumuli di calunnia e realtà distorta per riconsegnare dignità a quel sorriso rotto dall’ingiustizia. Sul palchetto immerso nel verde del Parco degli Acquedotti – quello stesso in cui sei anni fa Stefano Cucchi veniva arrestato – si susseguono voci rotte dalla commozione e strette attorno al bisogno di giustizia. Amici, cugini, compagni di scuola consegnano alle centinaia di persone presenti lo Stefano fratello e amico, lo Stefano del quotidiano, quello vero, quello cancellato. Il volto di un giovane come tanti, di un figlio, di un fratello, di un cugino, di un amico viene ridisegnato minuziosamente in una mattinata fatta di parole e occhi lucidi. Uno di noi, uno come noi, uno come tanti. A fare da collante ai momenti di testimonianza e sport che hanno segnato la giornata è la forza inverosimile di Ilaria. “Siamo caduti e ci siamo rialzati” è la frase che ad alta voce, col sorriso, la sorella di Stefano ripete come un mantra alla folla: chi con la maglietta “Corri con Stefano”, chi con addosso solo la voglia di stare lì per lui e per tutti quelli che hanno subito una morte insensata come la sua.
Uno striscione dei detenuti di Rebibbia campeggia alle spalle del palco, sullo sfondo le mura romane, il verde del parco tutt’intorno. In quella bellezza si consumava sei anni fa una delle ingiustizie più grandi e ingiustificate di questa Italia maledetta. Un artista con la chitarra snocciola i nomi delle vittime del sopruso della divisa e di uno Stato complice, vicende cupe che hanno scandito la storia del nostro paese: da Giorgiana Masi a Peppino Impastato, da Giuseppe Uva a Federico Aldrovandi, da Riccardo Magherini a Stefano Cucchi. Un fiume di nomi e di volti tumefatti che testimoniamo la vastità di un cancro che con metastasi impazzire ha logorato e non smette di logorare il paese, attaccandone vilmente le parti più deboli.
Gli anticorpi a quel male, però, esistono e la giornata dedicata a Stefano lo dimostra. Le voci che si alternano sul palco mettono in bella mostra quella fetta di Italia buona e sana che porta avanti ancora con fermezza e coraggio la voglia di giustizia. Quelle centinaia di persone sono la chiara dimostrazione che esiste un’Italia che non si piega, che si indigna. E l’indignazione si nutre di memoria come del pane e dell’aria, dice don Luigi Ciotti: continuare a puntare i riflettori sulla storia di Stefano Cucchi, di Federico Aldrovandi, di Giuseppe Uva, di Davide Magherini e dei tanti altri “figli come noi” è un dovere morale di fronte al quale nessuno di noi può più sottrarsi, men che meno il mondo dei media. Come guardiani della memoria, i giornalisti devono sentire addosso la responsabilità di tenere alta l’attenzione sulle ingiustizie “più ingiuste” come quella di cui Stefano è stato vittima.
Per troppo tempo i media si sono fatti portavoce di una verità malata, falsata, proteggendo così i colpevoli e infangando le vittime. Oggi più che mai si avverte il bisogno di capovolgere la situazione, di denunciare a voce grossa l’ingiustizia di storie come quella di Stefano e di restituire la verità a chi ha pianto e piange quelle morti assurde. “La giustizia è una parola terribile, come la verità”, diceva Saveria Antiochia, madre di Roberto, altra vittima innocente, morto per mano della mafia con la complicità malcelata di uno Stato assente. Giustizia e verità sono le armi più potenti di cui disponiamo per inchiodare i colpevoli alle loro colpe e restituire dignità a Stefano. Lo hanno ammazzato una volta, non lo faranno ancora finché ci sarà chi pretenderà verità e giustizia.