Il celebre adagio latino “si vis pacem para bellum” è una sonora cretinata. È da quando siamo al mondo che prepariamo la guerra, e la pace, praticamente, non l’abbiamo mai trovata. Nei settant’anni che vanno dalla fine del secondo conflitto mondiale a oggi ci siamo illusi, noi europei e occidentali, che il mondo fosse diventato un posto pacifico solamente perché quelle guerre venivano preparate e combattute lontano dai nostri giardini. Così non era, così non è. Dovremmo tentare di ribaltare lo schema, e provare a volere la pace iniziando a prepararla. E questo non passa dall’invocazione dell’uso delle armi.
I fatti di Parigi scuotono nel profondo, ma la guerra non è la soluzione. Ieri, Gino Strada l’ha detto con una semplicità perfetta: “L’unico modo per far finire la violenza è smettere di usarla”. Subito, le gazzette del conformismo, da il Giornale solo di nome alle nuove penne de l’Unità rinnovata, a dimostrazione della natura e della vastità dell’alleanza che sostiene l’intervento, hanno iniziato il tiro incrociato contro Emergency. “Siamo in guerra, dobbiamo combattere”, è la tesi. Bene, però, visto che v’entusiasmate nell’uso della prima persona dei verbi, andate avanti, partite pure per primi, “nous vous cédons le pas”, come canterebbe Georges Brassens.
Perché io, sinceramente, non l’ho mica capito contro chi dovremmo farla questa vostra guerra maledetta. Contro l’Islam, come tuonava ieri qualche portavoce del pensiero unico nella stanza vuota? Tutto? Ogni islamico? Non vi sembra un po’ troppo? Contro i clandestini, chiudendo le frontiere, secondo altri ancora più vuoti senza nemmeno quell’unico pensiero? Cioè, colpendo gli stessi che dal medesimo terrore parigino stanno fuggendo? E per chi? Per le democrazie (si dice così, vero?) d’Occidente che si alleano con quanti finanziano quei gruppi che poi, parbleu, si scoprono terroristi? Per le aziende di Stato che riempiono di dollari in cambio di petrolio alcuni sostenitori di quelle follie criminali e disumane? Per un sistema economico che non disdegna di fare affari vendendo le armi che servono poi a compiere quegli attentati? Lo vedete quanto è complessa la situazione? Lo capite che non è invadendo o bombardando (Who? What? Where?) che avrà fine questa pazzia?
Come faccio a dirlo? Ma scusate, quando in pochi dicevamo che riempire di bombe prima l’Afghanistan e poi l’Iraq non sarebbe servito a risolvere il problema, ci avete accusati di disfattismo, perché, per sintetizzarla con la copertina di un quotidiano dell’epoca, c’erano i forti che andavano alla guerra, e i deboli che scappavano, non sostenendo l’impresa. Vinsero i forti e le loro ragioni, e adesso qui siamo.
Vedete, lo capisco il motivo per cui, a volte, anche parlando con amici, non riesco a farmi comprendere. Dove il mondo spinge perché si vedano etnie e credenze religiose, io continuo a vedere classi e condizioni sociali. Contro chi dovrei andare a combattere con le armi, se l’unico nemico vero della pace è la miseria, l’ingiustizia, la diseguaglianza? Ecco perché, dopo quattordici anni ininterrotti di “guerra al terrore” siamo ancora al punto di partenza, e scopriamo pure nelle nostre periferie il germe dell’infezione che rende pronti a credere a qualsiasi paranoia prometta di liberare dal disagio, dall’esclusione, dall’alienazione, che sia vestita da ideologia o da religione, che può servire da oppio per non ribellarsi, ma altrettanto è buona quale anfetamina per eccitare alla rivolta cieca e vana, tranne che per chi la spaccia, sicuro di trarne vantaggio fingendosene dipendente.
Lo dice Strada che ho citato prima con le parole di Bertold Brecht: “La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente”. E la fame non nutre nessuno, tranne il rancore e la vendetta, la paura e la violenza.