La Romagna è come lo scrigno del tesoro dei pirati: alzi il coperchio e trovi ori, gioielli, diamanti scintillanti. Apri un portagioie e dentro c’è Longiano, adagiato sulle colline di Cesena come il palazzo incantato di Atlante; entri, e scopri la Rocca Malatestiana capace di inquadrare al tramonto visioni struggenti da pergamena orientale; superate le mura vieni accolto dalla Fondazione Balestra di raffinata eleganza; e nelle sue stanze ti imbatti nella ‘personale’ di Enzo Tinarelli, una selezione di dipinti mai prima esposti, al punto da richiamare dalla Francia, alla première, ammiratori della statura di Renèe Malaval e Gilles Antoine, editori di Mosaique Magazine, l’unica rivista al mondo specializzata in arte musiva!
L’artista in mostra è infatti un celebre mosaicista ravennate, attivo in Francia e in Italia, approdato a Longiano sull’ala poetica di Flaminio e Massimo Balestra, affabili gentiluomini che hanno curato l’esposizione e il catalogo con mano sapiente e felice. Ho conosciuto Tinarelli all’Accademia di Belle Arti di Carrara, eravamo colleghi ed entrambi romagnoli (io quasi), così impiegammo poco a stringere amicizia e a darci appuntamento per la cena. Non tardò ad offrirmi del buon bordeaux che teneva in cantina, segno araldico dell’ospitalità romagnola. Certe sere, grazie a Tinarelli, venivo accolto in una specie di modesto circolo di cavatori, gente che da generazioni trae sussistenza dall’estrazione del marmo bianco, il più pregiato, il prediletto da Michelangelo. Ascoltavo i loro racconti, le avventure delle cave, la sfida quotidiana con la morte, le storie di anarchia; guardavo le loro mani dure, callose, dalla pelle screpolata, assimilabili ormai anch’esse alle pietre. Ed ero grato a Enzo di avermi portato con sé in quel covo di amici nel quale da solo non sarei mai riuscito a infiltrarmi. Tinarelli addentava la pizza con dentro il lardo o la mortadella, e appagato spandeva attorno un profumo di Romagna che inebriava i suoi ospiti. Cos’è che li univa? La pietra; la loro vita era legata alla medesima sostanza. Il romagnolo di Argenta, anzi di Anita, quattro case basse intorno a una piazza, apparteneva a quel mondo superiore di artisti che con i frammenti di marmo, le piccole tessere squadrate, sono capaci di formare figure, di comporre racconti visivi, arazzi di pietra! Tinarelli rappresentava la civiltà di Bisanzio (che aveva brevemente dominato anche su Carrara), era l’Impero Romano di Oriente, era Ravenna sfolgorante di pitture musive plurisecolari, in cui disegni e colori affioravano da un ordito di lucidi tasselli. Rappresentazioni vive, favole palpitanti capaci di sfidare i millenni.
Enzo nasce in quella cultura sofisticata, la assorbe per osmosi, la respira con l’aria dell’Adriatico. Per me era un piacere ascoltarlo parlare durante le cene, assimilare le sue brillanti lezioni di mosaico, argomento preferito e inesauribile insieme al padre Idro, impavido cacciatore di anguille.
Come Tinarelli si sia accostato alla pittura, attraverso quali maestri, il visitatore potrà apprenderlo nella mostra di Longiano che dura fino al 13 dicembre; bisogna affrettarsi per non perdere questa occasione unica di fusione tra arte e cornice espositiva: 88 opere tra dipinti, pastelli, bozzetti e disegni che ripropongono magistralmente il percorso dell’autore, dagli anni Ottanta al presente. All’inaugurazione la critica d’arte Giovanna Riu ha fornito le chiavi di lettura, che possono essere rintracciate anche nel saggio ben argomentato di Massimo Balestra, o negli interventi di Bruno Ceccobelli e Claudio Cerritelli; completati dalla biografia. “Il mosaico mi ha salvato la vita” mi confidò Enzo all’inizio della nostra frequentazione. E mi parve di sciogliere l’enigma della sua passione: in una stagione giovanile di sperpero, in cui si stenta a trovare se stessi e ogni strada è pronta a ingoiarti verso destini ignoti o incontrollabili, la rivelazione dell’arte diventa salvifica, ti richiama a una misteriosa identità, al tuo progetto esistenziale. Chi l’ha provato sa che è così. Esiste una ‘chiamata’, la ‘vocatio’, un termine che siamo soliti utilizzare per la religione, ma che vale anche per l’inclinazione artistica, e a quella voce è arduo negarsi perché proviene da regioni superiori dello spirito, sconosciute, che qualcuno identifica in Dio. Se Tinarelli parla di ‘salvezza’, vuol dire che ci crede anche lui. Ed io che l’ho visto lavorare so quanto i suoi gesti, il suo operare, siano profondamente religiosi. Tinarelli non arpeggia di retorica attorno alla sua professione, perché dentro di sé si considera piuttosto un operaio. Ed è questa umiltà che lo rende un degno sacerdote della sua disciplina. Ora questa retrospettiva di Longiano ci offre la possibilità di conoscerlo da vicino, in quell’impasto unico e inconfondibile che lo ha condotto ai risultati ben risaputi.
L’artista è tale se testimonia di sé senza riserve o censure, quando assolve onestamente alla sua funzione psicanalitica di sogno collettivo, e ci svela con le proprie opere le zone d’ombra che non saremmo in grado di diradare senza il suo aiuto. In questa mostra Tinarelli ci parla finalmente di se stesso. Ma lo scrigno dell’arte contiene altri doni non meno sorprendenti: chi avrà la fortuna di pernottare al castello scoprirà la locanda “Corte dei Turchi” registrata sotto B&B; non scherziamo! Qui si viene ospitati in suite di aristocratica accoglienza, e la colazione è curata in ogni nuance, fino alla scelta della musica in sottofondo. Né è lecito tralasciare una visita alla panoramica Osteria del Fabbrolo (Diolaguardia di Roncofreddo), dove spaziando a perdita d’occhio sulla Romagna Felix si assaporano vivande di elevata, tradizionale fattura; indescrivibile la zuppa inglese, un peccato di gola superiore a ogni penitenza.