Osama Abdul Mohsen, il profugo siriano sgambettato insieme a suo figlio Zaid dalla giornalista ungherese Petra Laszlo
Incontro Ossama nel garage dello stadio Olimpico di Torino, che -come ogni stadio vuoto- per chi è pazzo di calcio come noi è già un posto molto accogliente. Sorrido e dico “salamalekum” quando mi stringe la mano e risponde con un sorriso ancora più largo, ma poi i suoi occhi potentissimi si perdono un po’, tra la grandezza dello stadio, il piccolo Zeid (il bimbo che reggeva in collo quando è stato sgambettato) che vorrebbe abbattere a pallonate un muro dello stadio, è il figlio grande, Mohamed, che non si stacca dalle cuffiette dell’iPod e sembra il più timido di tutti. Usciamo ai bordi del prato e Ossama, che in Siria allenava e vinceva Coppe, sogna di quell’erba tagliata fine e di quella panca tutta granata, la mente insomma gira veloce, finisce quasi in campo, Osama, e lo steward iraniano che lo ferma -“non camminare sul prato”‘gli dice in arabo “che stasera giocano, si rovina!”- rischia di applicare lo stesso metodo della reporter ungherese, uno stop sul confine secco e rabbioso, ma Ossama sorride, capisce che non è il caso di entrare, poi ripensa a quel giorno sul confine ungherese e mi dice netto: “nessun perdono per quella reporter, ha fatto apposta, è stato un gesto volontario e cattivo. Ho avuto paura soprattutto per il piccolo Zeid. D’altra parte, pochi secondi prima, la stessa giornalista aveva tirato un calcione ad una bimba con lo stesso scopo: impedire la fuga e favorire l’arresto”. Vorrebbe dimenticare, Ossama.
Adesso che vive in Spagna, è all’alba di una nuova vita, dopo che la sua storia ha commosso il mondo ed ha ottenuto un posto come tecnico delle giovanili del Getafe, quarta squadra di Madrid. All’appello mancano solo moglie e figlia, ancora bloccate in Turchia dopo la fuga, tre anni fa, dalla loro città nel cuore della Siria, allora oggetto dei bombardamenti dell’esercito di Assad, oggi in mano all’Isis. “Sarò felice solo quando saremo riuniti e quando tutto il mio paese sarà libero e pacificato. Nel frattempo sogno di riunire in una unica squadra tutti gli atleti siriani che sono scappati in Europa, come noi. Un progetto che entrerebbe nei libri di storia”. A Torino per ricevere il premio “Etica e Sport”, Ossama torna spesso su quello sgambetto. Mi verrebbe da dirgli che il tackle maledetto di quella giornalista non è quello dell’Europa intera. Che qui può esserci futuro. Ma sono, probabilmente, parole vane. Che non scalfirebbero la sua profonda convinzione. Gli occhi sono ancora più carichi di dignità quando intuisci che per lui la partita è tutta a casa, e che per vincerla occorrono fantasia e gioco d’attacco. Come nella sua vita, altroché sgambetti.