Una guerra batteriologica per spargere il virus del panico a bassa intensità, quello usurante che cambia le abitudini. Che crea nuove paure e nuova voglia di contro-rappresaglie etniche e religiose; che mina la lucidità collettiva fino a far ritenere inadeguata la democrazia al rischio e a far ingrossare il consenso istintivo a favore della destra, che offre elisir di xenofobia protettiva.
Le prime rivendicazione collegano questa strage ai raid dell’aviazione francese sui campi di guerra dell’isis. Ma è una lettura troppo circoscritta per comprendere la complessità di un conflitto meta-locale, che da anni si alimenta nella falda profonda della questione israelo-palestinese.
E’ li che nasce la teorizzazione dell’abuso di potere. Dove si afferma la cultura del togliere la terra ai più deboli con gli insediamenti dei più forti, in spregio ad ogni frontiera, ad ogni principio di diritto. Una violazione normalizzata e ostentata, che nel tempo diviene paradigma di scontro tra civiltà e religioni. Su questa frustrazione locale, l’isis ha costruito un conflitto globale, usando la religione come anfetamina identitaria, che deforma ed esalta.
E’ quella la ferita che dobbiamo risanare, se vogliamo evitare altri contagi come in Tunisia, Egitto, Libano, cancrene in Libia e Somalia, esodi in Siria. Fino alle rappresaglie in Europa. Ma ci vuole un’Europa politica, unita e lungimirante. Che senta la responsabilità internazionale della propria cultura democratica, da propagare non con missioni aeree, ma diplomatiche. Altrimenti, siamo destinati all’abbrutimento fobico e alla chiusura aggressiva.
Non ci hanno unito i valori comuni. Forse ci unirà la paura di perderli.
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