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Parigi e il suo doppio. La tv va alla guerra

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Molto severo il giudizio autorevole di Vittorio Roidi (sito ordine dei giornalisti del Lazio) sulla copertura televisiva della tragedia di Parigi. Si fa qualche eccezione per La 7 con Mentana, Rainews e Skytg24, nonché per la infaticabile tenuta di Antonio Di Bella  nel lungo speciale del Tg1. In verità, anche le altre testate del servizio pubblico e di Mediaset sono state testimoni di eventi figli dell’era veloce e digitale, non certo di un passato arcaico e arretrato. Tant’è che i video dell’Isis (o Daesh che dir si voglia) sembrano confezionati da uno studio pubblicitario, con tanto di accurata postproduzione. Del resto, sotto le vesti tribali e i turbanti che inquietano l’immaginario occidentale, non mancano giovani europei. Ecco il punto, allora. La media mediatica nell’approccio ad un fenomeno così lontano dagli archetipi consueti è vittima di uno spiazzamento. Abituato a narrare omicidi singoli o plurimi, accidentali o diabolicamente premeditati, eccidi inerenti ai conflitti tradizionali, il flusso non sa come raccontare il nuovo terrorismo dell’epoca globale, confuso con l’Islam e ridotto ad una deviazione religiosa estremista. In verità, si è vista la distanza abissale tra la realtà e la sua rappresentazione. Troppo deboli e sommarie sono le culture geopolitiche e il giornalismo non riesce a tenere il passo della globalità. A parte il caso di taluni talk trasformatisi persino nella tragedia in mediocre operetta.

La quantità  non è mancata. Venerdì 13 novembre la Rai ha avuto 37,3 milioni di contatti, con un incremento di 1 milione rispetto al venerdì precedente. Sabato 14 si è arrivati a 40 milioni: 3,3 in più a fronte dell’omologo giorno della settimana prima. E domenica il tetto ha toccato i 40 milioni. Se li sommiamo con le reti private, e pur considerando un ampio zapping, è lecito azzardare che pressoché tutti gli italiani abbiano seguito le news televisive. Non contro la rete, bensì con la rete. Proprio Internet si è confermato cruciale per riannodare i fili di comunicazioni interrotte, per garantire un network democratico. La dieta mediale si è allargata. Tablet e Iphone hanno messo in circolazione documenti audiovisivi essenziali per la conoscenza e la memoria. Tuttavia, la tv, che ci avvolge con le non stop e ci assale con l’onnipresenza, poco ci dice su che accade e perché, prigioniera della sintassi della cronaca nera. La guerra in diretta a sua volta, come hanno rilevato la sociologa Sara Bentivegna (1993) dopo la prima avventura nel Golfo e il bel volume sui “Linguaggi della guerra” del semiologo Federico Montanari, non sfugge ai rischi di manipolazione e di soggezione alle strategie comunicative delle parti in campo. E, attenzione, proprio Daesh sembra provvista di una notevole capacità sul terreno dei media, vecchi e nuovi.

Serve, dunque, un cambio di passo nella qualità dell’offerta e nella ricerca delle competenze necessarie. Osservare l’obbligo della verità, quando quest’ultima si fa scomoda perché ci interpella sulle scelte abnormi fatte dall’occidente in Iraq, in Afghanistan, in Libia o in Siria o sulle diffuse complicità dell’industria delle armi, è il dovere primo. E’ stata ricordata –a proposito di un terribile titolo di “Libero”- la Carta di Roma, un importante riferimento per la deontologia. E’ urgente, però, battersi per un’informazione sempre indipendente e libera. Per evitare che “L’état d’urgence permanent” evocato da Hollande non si risolva in un’eterogenesi dei fini. Guai a rispondere alla violenza con la censura. Sarebbe la resa.

Fonte: “Il Manifesto”


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