O le Borse o le vite

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Se fosse una parafrasi dozzinale di un seriale noir scandinavo, potremmo dire “mercanti che odiano gli uomini”. Ma siccome siamo nel mondo reale, la questione è più complessa, sebbene rimanga vivo il sospetto che una relazione quasi rancorosa fra gli uni e gli altri esista davvero, dato il quasi puntuale collegarsi delle sorti dei secondi con gli affari dei primi.

Tre notizie in questi giorni mi hanno fatto riflettere. La prima: “McDonald’s: più cedole, meno stipendi. Agli azionisti 30 mld, ai dipendenti meno di 15 dollari”. La seconda: “Unicredit taglia 18.200 dipendenti in Europa. Esuberi superiori alle attese: 540 in più in Italia, che si aggiungono all’accordo 2014 da 5.100 uscite. Il patrimonio Cet1 salirà al 12,6%, al lordo delle cedole da erogare al 40% degli utili, visti salire a 5,3 miliardi nel 2018. L’azione sale”. La terza: “Attentati Parigi, Francia alla Ue: ‘Sforiamo patto di Stabilità’. Borse in positivo, in spolvero i titoli della difesa”. Da un lato, le vite delle persone, quelle che faticano ad arrivare a fine mese immersi da mattina a sera fra patatine e hamburger, quelle che patiscono le riduzioni di personale agli sportelli, quelle che si spengono, fra le strade della capitale francese come nelle martoriate città mediorientali, dall’altro, le Borse, che in – e verrebbe da dire “di” – tutto questo brindano.

Se avessimo chiesto di superare l’assurdo rigore finanziario per progetti di inclusione sociale, anche per evitare che quelle periferie che ora temiamo trovassero altri argomenti a nutrire il rancore, ci avrebbero risposto che il vangelo della contabilità non ammette eresie. Ma siccome è chiesto appellandosi al conflitto tra Stati, allora si può, certificando che siamo giunti a quell’economia di guerra che molte volte nella Storia è stata risolutrice del contingente finanziario e produttivo (oltre il fatto che il Daesh, con tutta evidenza, per l’Europa sia uno Stato a cui riconoscere ufficialmente le ostilità) come spiega bene Flavio Pasotti per Gli stati generali.

Dopotutto, la guerra è sempre stata sostanzialmente quella cosa: un modo per arricchirsi e l’effetto della bramosia di terre, potere, ricchezze. Degli Stati e dei loro reggenti, certo, come di chi fa e vende le armi, ovvio. Nondimeno, però, dei singoli che di quei beni con quella ottenuti godono: dal petrolio che fa andare le nostre auto alle terre rare che fanno girare la tecnologia, dai soldi che ritornano per la vendita e l’uso di bombe e fucili fino ai posti di lavoro che dalla loro produzione dipendono e derivano.

Come diceva uno spossato Alberto Sordi alla famiglia che gli rimproverava d’essere “il Cobra”, un cinico mercante di morte in Finché c’è guerra c’è speranza: “per sostenere tutte le cose che avete e continuate a volere senza accontentarvi, qualcuno bisogna depredare; ecco perché si fanno le guerre”. Concludendo poi dando loro ragione delle accuse rivoltegli, e dichiarandosi disposto cambiare mestiere, riducendo conseguentemente lo stile di vita suo e di tutta la famiglia. “Vado a riposarmi perché sono sfinito”, aggiungeva congedandosene, “devo dormire almeno un’oretta. Ho un aereo alle cinque e dieci, devo andare a piazzare un carico di 70.000 mitragliatrici. Facciamo così: se volete che cambi e mi rimetta a vendere pompe idrauliche, lasciatemi dormire fino a domattina, se devo partire e continuare quello che faccio, continuando a poterci permettere ciò che facciamo, allora svegliatemi alle tre e mezza”.
Andarono a svegliarlo alle terzo e un quarto.


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