Eravamo a teatro (è il nostro mestiere) quel pomeriggio d’ottobre del 2002 in cui il terrorismo ceceno faceva scempio di se stesso, e di chiunque fosse in sala, nell’assalto al Dubrovka di Mosca- che comportò circa sessanta vittime, tra blitz delle milizie specializzate e inalazioni di gas nervino. Eravamo a teatro (è il nostro mestiere, affidato al Caos, alle coincidenze, imparagonabile al giornalista di frontiera) la stessa sera in cui, a Parigi, l’apocalisse di certo Islam metteva in ‘prova generale’ l’attitudine del proprio “genio” a venir fuori dalla propria lampada mortifera (e ‘fuori di brocca’ da ogni possibilità relazionale con il resto dell’universo). Singolarità o indizio, in entrambe le occasioni si rappresentava un’opera di Anton Cechov. Alla cui evidenza non potevamo, istintivamente, sforzarci di dare una pur labile risposta, che “Il giardino dei ciliegi” rappresentato al Quirino di Roma, per la regia di Luca De Fusco, mi pare assecondi. Ad esempio: perché la cultura occidentale ha dovuto ‘auto elaborarsi’ per almeno un secolo prima di approdare a quella sintesi di sostantivo e aggettivo- “passioni tristi”, quasi un ossimoro- di cui Cechov era una sorta di veggente e di diapason? La passione, per sua natura, può essere rovente, infelice, inebriante- per nulla ‘triste’ Sentimento che appartiene al disagio dell’anima (nei suoi troppi, falliti ‘patti sociali’) che volge in melanconia, crepuscolo, depressione.
E’ solo un’ipotesi: ma se fosse che tutto il ‘Novecento’, lo sferragliante ‘secolo breve’ (per utopie, idealismi, guerre mondiali, totalitarismi, nuove intolleranze e reificazione dell’individuo) sia trascorso ‘inutilmente’; e che, come al risveglio delle belle\addormentate ci si ritrovasse, chi più chi meno, al punto di partenza. Ovvero il punto, analiticamente doloroso, inerte, inerme, in cui il grande scrittore aveva ‘lasciato al proprio destino’ gli ectoplasmi senza requie di “Zio Vania”, del “Gabbiano”, delle “Tre serelle”. E di questo magnifico, poetico, concettuale “Giardino dei ciliegi” con cui Luca De Fusco integra una ristretta cerchia di interpretazioni e personalizzate ‘letture’ sceniche che annoverano (per quel che so) i pochi nomi di Visconti, Nekrosius, Strehler, e dell’ingiustamente rimosso Lamberto Puggelli- che, una ventina d’anni fa, per lo Stabile di Catania, realizzò una delle edizioni più adamantine, freudiane, meta-naturaliste del dramma (che è del 1904, dunque a ridosso della rivoluzione d’ottobre, e della precoce fine di Cechov).
Similitudini ed elementi di contiguità che, espansi in una dimensione onirico\metafisica crediamo di ritrovare nell’attenzione rassegnata ma crepitante che Luca De Fusco attribuisce ad una sorta di ‘quieta nevrosi’ attraverso cui emergono i dettagli più ‘infimi’ e irreparabili di un dramma familiare, psicologico, classista (nel vago èsprit di una decadenza sudista). Che qui si eleva a paradigma di ogni ‘fine d’epoca’, costante invariabile di qualsiasi istante della Storia umana (nello spazio e nel tempo), salvo avvedersene (storici, politici, intellettuali) solo a fatto compiuto, e con la sola eccezione del presentimento di qualche artista noioso cui è ancora intimato di scegliere se stare tra gli ‘apocalittici’ miserabili o gli ‘integrati’ per vanagloria o miope privilegio. Cechov, che visse in un’epoca di malfermo trambusto e perdita d’ogni certezza, scelse di non scegliere, assecondato dalla suo intuito ‘sismografo’ e dalla consapevolezza della malattia che gli ‘assicurò’ una morte precoce, consegnata ai miti della drammaturgia e alla immensa neutralità del suo osservare con invisibile complicità “il vaudeville e la sciagura” di chi resta.
Idea forte dello spettacolo di De Fusco resta in ogni caso l’ ingegno figurativo, l’intuito (per nulla metafisico) di far scaturire i suoi personaggi (vaticinanti a tratti da una sorta di ologramma cine-espressionista, dall’alto di una malferma scalinata), come da un’era di glaciazione che li depone (nel bel disegno di Maurizio Balò) in un presente di piccinerie, infantilismi di ritorno, buffi tic caratteriali. Liddove alla commedia non è concesso di nobilitarsi in vera tragedia. E all’estinguersi di giardini, ciliegi, latifondi messi all’asta si sopperisce con il sovrastare di un recinto scenografico che allude ad un frastagliato avanzamento di lastroni bianco\latteo. Suffragati dal pallore del paesaggio umano che si palesa nella strenua, illusoria difesa di un paradiso campestre, probabilmente mai esistito e che (ad ogni modo) è modernamente destinato a una lottizzazione remunerante chi, anni prima, era stato servo della gleba e, in ascesa, euforico neo.borghese svezzato alla speculazione, nonostante il residuo sentimento d’amore per l’antica padroncina. Sino a che tutto si compirà dentro uno squarcio di proscenio (anch’esso seghettato) che ricorda l’ingresso a un oltremondo a forma di caverna, a uno speleologico ritorno verso ‘ciò che accadde per ripetersi’. Suffragato a sua volta, e in caduta libera (che non è suicidio), dalla sparizione di Lyuba, Gaev e friabile comitiva su di un irto fondale spalancato sul nulla. Li rivedremo mai più, e in quali altre sembianze?
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“Il giardino dei ciliegi” di Anton Čechov
traduzione Gianni Garrera
con Gaia Aprea, Paolo Cresta, Claudio Di Palma Serena Marziale, Alessandra Pacifico Griffini, Giacinto Palmarini, Alfonso Postiglione, Federica Sandrini, Gabriele Saurio, Sabrina Scuccimarra, Paolo Serra, Enzo Turrin
scene Maurizio Balò
costumi Maurizio Millenotti
luci Gigi Saccomandi
coreografie Noa Wertheim
musiche originali Ran Bagno
adattamento e regia Luca De Fusco – Roma Teatro Quirino dal 5 al 17 novembre 2015