L’unica certezza è il caos

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Parigi in fiamme, Bamako di riflesso, Bruxelles sotto assedio, i cieli di Roma che potrebbero essere sottoposti a un regime di “no fly zone”, l’Europa sconvolta e per nulla in grado di reagire razionalmente alla tragedia che ha colpito la capitale francese lo scorso 13 novembre e a quella del Mali una settimana dopo, mentre una delle menti dell’attacco terroristico parigino è ancora in giro per le strade del Vecchio Continente e la sua sola ombra è in grado di paralizzare intere città e interi paesi.
La realtà, di fronte a questo sconvolgimento globale di ogni certezza, è che ormai l’unico elemento di cui possiamo essere sicuri è il caos che pervade le nostre società invecchiate, le nostre democrazie fragili, le nostre comunità sfibrate e sfiancate dalla crisi, i nostri governi deboli e composti da classi dirigenti di scarso valore, la nostra imprenditoria priva di idee e le nostre giovani generazioni sempre più sole, insicure e abbandonate a se stesse.

Ha ragione, infatti, chi analizzando in profondità gli attentati di Parigi ha parlato di “generazione Bataclan”: era proprio l’obiettivo che i seminatori di morte e di terrore volevano colpire, privandoci non solo dei pochi diritti rimastici ma anche della prospettiva, quanto meno della speranza, di riuscire a costruire un avvenire migliore, basandoci sull’energia, la vitalità e la freschezza di ragazzi e ragazze che, almeno nella loro parte migliore, ben incarnata dal volto luminoso della povera Valeria Solesin, non sanno nemmeno cosa sia il razzismo, avendo sempre vissuto a contatto con coetanei di tutte le lingue, le etnie e le religioni.

Hanno colpito la “generazione Europa”, la “generazione Erasmus”, i ragazzi nati nell’Europa di Delors e cresciuti sognando un mondo senza barriere e senza confini; ci hanno reso più poveri e più insicuri, mettendo a nudo i nostri piedi d’argilla, la nostra intrinseca fragilità psicologica, la nostra latente isteria, palesatasi in tutta la sua pericolosità nel momento in cui abbiamo visto la guerra in casa e la violenza cieca e feroce che fino a quel momento avevamo conosciuto solo grazie al cinema e alle testimonianze di quei padri e di quei nonni che avevano patito sulla propria pelle l’inferno della Seconda guerra mondiale e, per quanto riguarda l’Italia, degli Anni di piombo e della Strategia della tensione.

La verità, dunque, è che la generazione colpita con inusitata malvagità dai propri coetanei votati al martirio jihadista non ha gli anticorpi necessari per combattere questa guerra: il che è un bene, per carità, perché significa che per una ventina d’anni il nostro mondo non ha conosciuto particolari scie di sangue, in grado di abituare alla barbarie i propri figli, ma è anche un male perché, al cospetto di quest’orrore, ci mancano persino le parole per descrivere quanto sta succedendo.
Abbiamo parlato di guerra ma neanche questa definizione è corretta, almeno attenendoci alla politologia e ai linguaggi militari correnti: una guerra, presuppone, infatti uno scontro fra due o più stati, con dichiarazioni consegnate agli ambasciatori, bombardamenti sulle città nemiche e tutte le mostruosità che abbiamo studiato sui libri di storia.

Vogliamo chiamarla guerra asimmetrica? Può darsi che, almeno in parte, lo sia ma neanche questa definizione è più tanto corretta, in quanto non siamo nel 2001, quando gli Stati Uniti dichiararono guerra all’Afghanistan, dando vita a una delle azioni militari più stupide e mal coordinate che si ricordino a memoria d’uomo. E non siamo nemmeno nel 2003, quando ancora il “war president”, al secolo Bush, fedelmente assecondato dai vassalli Blair e Aznar, si lanciò nel pantano iracheno che, per come è stato gestito prima, durante e dopo, ha provocato centinaia di migliaia di vittime civili, un malcontento popolare spaventoso e, di conseguenza, il Califfato del terrore che ora ci colpisce selvaggiamente, minando le nostre residue certezze e smantellando i sogni e le ambizioni di giovani inermi e nemmeno in grado di concepire le atrocità cui vengono sottoposti.
Quella cui stiamo assistendo è, in realtà, una guerra privata: da una parte, le multinazionali del petrolio e di altri settori strategici e vitali per alimentare il mostro consumista che sta divorando l’Occidente; dall’altra, una religione strumentalizzata, distorta e travisata ad arte fino a trasformarla in un’ideologia aggregante, con lo scopo di supplire alla destrutturazione e allo sfarinamento cui è andato incontro il mondo arabo dopo la sospetta morte di Arafat, l’impiccagione di Saddam Hussein e la destituzione dei ras del Nord-Africa, senz’altro esecrabili ma, al tempo stesso, preferibili alla confusione estremista nella quale versano oggi quei paesi, con la sola, flebile eccezione della Tunisia.
E ritorna l’amara certezza di un conflitto che non possiamo vincere, per il semplice motivo che lo abbiamo perso oltre trent’anni fa, quando, negando l’esistenza stessa delle ideologie, il loro ruolo e la loro fondamentale importanza negli equilibri di una società, ci siamo assoggettati al pensiero unico dominante del liberismo ruggente e individualista, plaudendo alle sparate thatcheriane sulla società che non esiste e sull’uomo che deve cavarsela da solo, trasformando la povertà e la mancanza di opportunità in una colpa e facendo sorgere all’interno delle nostre rutilanti città delle periferie disperate e miserevoli, ricettacolo di violenza, spaccio di droga e rancori di varia natura nonché terreno di coltura ideale tanto per la pericolosissima destra in stile Le Pen quanto per i predicatori fondamentalisti seguaci di al-Baghdadi.

Senza contare che nel momento in cui ci blindiamo, diventiamo paranoici, cominciamo a dubitare del prossimo e a chiamare la polizia non appena troviamo una borsetta dimenticata in una metropolitana o su un treno, nel momento in cui una bandiera degli All Blacks viene scambiata per un vessillo dell’ISIS, in quel momento il Califfato ha ottenuto il suo scopo, modificando radicalmente il nostro modo di vivere, sentire, pensare e divertirci, impedendoci di immaginare un futuro e di esprimere concetti di tolleranza e di rispetto reciproco, di volare, di viaggiare liberamente, di difendere la nostra privacy e tutti i diritti e le libertà faticosamente conquistati in decenni di lotte sociali.

Infine, non possiamo vincere questa guerra perché, a differenza di un tempo, non abbiamo più nazioni e governanti effettivi bensì burattinai che muovono i fili ed esecutori che agiscono al loro servizio, con poche virtuose eccezioni, una delle quali, ci piaccia o meno, è costituita dal discutibile Putin, personaggio sul quale è lecito e giusto nutrire mille dubbi ma al quale va riconosciuto di comandare a casa sua come non avveniva dai tempi di Gorbačëv e della fu Unione Sovietica.
Non a caso, solo Putin si è potuto permettere il lusso di dichiarare guerra al Daesh e di definire in maniera nitida i propri alleati e la propria sfera d’influenza. Hollande arranca, ricavando più figure ridicole e dinieghi da parte dei presunti alleati che successi sul campo, a dimostrazione che la Francia, oltre a non avere più un De Gaulle, ha perduto l’antica “grandeur” e il suo ruolo di primo piano sullo scacchiere mondiale. L’Europa semplicemente non esiste: è sotto attacco ma non ha i mezzi, le forze, le truppe e la possibilità di difendersi né, quanto meno, di parlare con una voce sola. Gli Stati Uniti devono fare i conti con la memoria viva e bruciante delle disfatte di Bush, pertanto difficilmente, almeno finché ci sarà Obama alla Casa Bianca, saranno disposti a mettere i famosi “stivali sul terreno” per combattere a viso aperto le milizie del Daesh. Nel Nord-Africa, Libia in testa, regna il caos più assoluto e i presunti alleati dell’Occidente (Turchia, Arabia Saudita e Qatar su tutti) sono, in realtà, i primi sostenitori dei fondamentalisti nonché i loro finanziatori occulti.
Se a ciò aggiungiamo che l’Europa, Francia in primis, non sa ancora come comportarsi nei confronti dell’imprescindibile macellaio Assad e che ha recentemente appoggiato la rielezione di Erdogan, promettendogli addirittura di riaprire il discorso su un suo eventuale ingresso nell’Unione Europea in cambio del trattenimento sul suolo turco dei profughi in fuga dalla Siria e contrastando la Rojava e i combattenti curdi che da mesi subiscono il duplice massacro dei jihadisti e dei carnefici del Sultano sul Bosforo, capiamo bene per quale motivo questa guerra-non guerra ci sta travolgendo, mettendo in discussione le ragioni stesse di un Occidente da anni in lotta prima di tutto con se stesso.

D’altronde, come è noto, qualunque stratega militare sa e insegna che il nemico si colpisce nei suoi punti deboli e nel momento in cui è maggiormente vulnerabile: il Daesh ha imparato la lezione e quest’Europa, prigioniera della sua stanchezza esistenziale, dei suoi populismi, delle sue ondate xenofobe e del suo modello di crescita e di sviluppo ormai insostenibile, sta recitando alla perfezione il ruolo della vittima sacrificale.


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