Luca de Filippo… sarà un’assenza insopportabile

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Che le condizioni di salute di Luca De Filippo fossero seriamente compromesse; che ogni sua serata d’attore (e regista teatrale), in giro per la penisola ad assolvere – stoicamente- alle sue responsabilità di interprete e capocomico alla maniera artigianale (dar pane e companatico ad una compagnia di fedelissimi) equivalesse alla fatica di Sisifo, lo si sapeva e lo si sottaceva. Come ad esorcizzare, a prolungare, rimandare quell’immane macigno che è la morte, specie quando giunge ad un’età (i suoi sessantasette anni snelli, gioviali, ben portati)  che prometterebbe ben altri approdi, cimenti, esercizio d’una passione (di una rara competenza), eredità genetiche di un figlio d’arte. La cui postura, gestualità, timbro vocale, arte della pausa e della controscena somigliavano, senza ricalcarla, la geniale lezione del padre Eduardo con il quale aveva iniziato a calcare le scene da bambino (era Peppeniello in una storica edizione di “Miseria e nobiltà” anni cinquanta), dunque svezzarsi al duro apprendistato di una disciplina che rischiava (senza l’antidoto del pubblico plaudente, delle ‘piccole’ soddisfazioni d’una notorietà schiva sino al pudore) di farsi nevrotizzante routine, rutilante ovazione al giramondo ‘senza casa’. Talvolta rassegnato, anzi ‘esaltato’ -come ci insegnò Gianni Santuccio, solingo e senza più sodali, nel piccolo capolavoro cecoviano de “Il canto del cigno”- nello scegliere i tavolacci di palcoscenico quali estremo rifugio, eclissi, diniego  al mondo dei ‘regolari’.

Diversamente da quel che, per il suo bene, è accaduto Luca, circondato sino alla fine dall’affetto dei familiari e della bella, brava compagna di vita e di scena, che è la Carolina Rosi, unica figlia del grande Francesco (napoletani ‘ci cuore e di mente’ tutti e tre),  al cui ultimo, casuale incontro al Teatro Vascello di Roma (un anno e mezzo fa) devo, per quanto mi riguarda, sia la gioia di poterlo ricordare vigoroso novantenne fertile di pensieri e favella, sia – inaccettabile – un primo sussurro alle piccole defaillance di salubrità, di solerte presenza a teatro, prima d’ogni altro attore  (fossero prove o spettacoli già in essere), che erano, per Luca, indefettibili testimonianza di serietà, dedizione, senso di responsabilità verso se stesso e, soprattutto, verso gli altri.

Taciturno, sereno, senza esagerazioni prodigali, marchio di garanzia di una qualità di teatrante macinata sul riserbo, la ‘misura’ nel dispensarsi al pubblico, nella  inderogabile ripugnanza per ogni forma di gossip o pubblicità che potessero compromettere quella sua specie di ‘sacerdozio’ (da autodidatta, da sedimentato e macerato spirito di servizio) che lo ‘consustanziava’ alla professione prima d’ogni altro  desiderio. Se non quello, frugale ed estivo, di trascorrere le sue vacanze in barca, lontano da fotografi e spiagge alla moda, nocchiero di una breve vita, svanita stasera come ‘la bianca scia di un’elica’ a Sorrento.

Per la verità, nonostante le apparenze, il blasone artistico degli antenati (la ‘allargata’, disdastrata famiglia di nonno Scarpetta), l’esistenza di Luca non era iniziata tra leccornie, privilegi, scapestrati (s)scapricci da figlio ‘di papà’. Metodica frugalità- a parte- di un padre come Eduardo, il piccolo Luca, nel giro di pochi lustri, aveva già subito i suoi primi, incolmabili dolori: la perdita della giovane madre Thea Prandi, attrice anch’essa, e della dodicenne sorella Luisella –  fulminea crisi di peritonite- mai elaborati, probabilmente, da quest’uomo, regista, scrittore, poeta  che (nonostante i riconoscimenti al suo enorme talento di naturalismo attorale, stemperato da essenzialità espressiva e setaccio auto-critico rispetto al ‘grande attore’ di stampo mediterraneo) aveva solo in parte  riscattato i lutti, la malinconia, il sentimento della solitudine (acuita dalle acerbità affettive del padre) e di certa, pirandelliana consapevolezza di quel che conosceva come ‘pena del vivere’

In sostanza il giovane Luca crebbe, quotidianamente, alla scuola e nella casa romana Eduardo: “Mi voleva bene, altro che- ricordava tempo fa- ma la sua indole era quella che era, scaturita da un’infanzia di disagio e sofferenza: gelo e silenzio, gelo e silenzio, ripetè sino alla fine, come a chiedermi scusa, a ricolmarmi, con il suo fisico ormai piccino e debilitato, dei baci e degli abbracci che vietava a se stesso, soffrendo come me, più di me della perdita di Luisella e della mamma. In realtà non mi perdeva mai d’occhio, trovava sempre modo di farmi lavorare con lui, qualsiasi spettacolo si trattasse, anche a costo di inventarmi un ruolo invisibile, l’apparizione d’ un ragazzo e d’un solo attimo”

A vent’anni, però, quando da giovanotti iniziavamo a scalpitare, a dimenarci nella naturale (ormonale) insubordinazione sessantottina, Luca era già  ventenne  “ Figlio di Pulcinella” con lo  pseudonimo di  Luca Della Porta (“non volevo passare per raccomandato”). Ed intanto proseguiva la proficua gavetta (fra palcoscenico e commedie televisive, rimasterizzate e quindi  ben fruibili)  con un fior fiori di repertorio (ed in ruoli sempre più impegnativi) che comprendevano i classici di sempre:  “Filumena Marturano”, “Io, l’erede”, “Non ti pago”, “Il sindaco del rione Sanità”, “Uomo e galantuomo”, Natale in casa Cupiello”, “Gli esami non finiscono mai”, “Le voci di dentro”, oltre alle antiche farse-amare di  “Sik-Sik l’artefice magico”, “Gennareniello”,   “Quei figuri di tanti anni fa”, “Ditegli sempre di sì”, “Chi è cchiù felice e me”. E i contigui copioni del cugino   Vincenzo Scarpetta “O tuono ‘e marzo”, “Na santarella”, “Tre cazune fortunate”, che Luca De Filippo, con Carolina Rosi, ebbe cura di inserire anche nel suo più recente repertorio (“in questo mia andare da viandante, per libera scelta, per libertà misurata dall’etica”)

Sappiamo quanto il teatro italiano (e non solo) debba gratitudine a  Luca, allorchè, alla morte del padre (1984) seppe caricarsi sulle sue sole spalle (e con il fedele ausilio che fu stima del suo pubblico) la prosecuzione, la ‘riforma, il rinvigorimento d’un repertorio che già si prestava ad un secondo livello di lettura: non più basato sulla magnetica presenza di Eduardo, ma sulla qualità (sostanziale, in filigrana) di opere che captavano, anticipavano, stigmatizzavano i costumi nazionali non meno delle commedie cinematografiche di Risi, Scola, Monicelli. Così come, già nel dopoguerra, era toccato a Eduardo  essere il complemento ed il completamento drammaturgico della celebrata stagione del neorealismo secondo Visconti, Rossellini, De Sica (“Questi fantasmi”, “Napoli milionaria”, ed lo sperduto sceneggiato televisivo “Peppino Girella”)

Prezioso comprimario anche di altri colleghi (magnifica la sua “Arte della commedia” a fianco di Umberto Orsini e Giancarlo Zanetti), Luca De Filippo  si rivolge, più d’una volta sia ai classici (“Il piacere dell’onestà”, “Il berretto a sonagli”, “Il malato immaginario”), sia agli autori contemporanei, come nel caso di Vincenzo Cerami e della sua “Casa al mare”, de “L’esibizionista” di Lina Wertmuller, de “L’amante” di Pinter, in coppia con Anna Galiena, sino al misconosciuto  “Il suicida” di Michele Serra, tratto da un racconto di Nicolaj Erdman, ed al Beckett spoletino di “Aspettando Godot”, che nemmeno esso ebbe adeguata distribuzione.  Tornando così a lavorare con la Wertmuller per l’adattamento televisivo di “Sabato, domenica e lunedì”, cui  rimase accanto anche per alcune fiction di minore spessore (“Naso di cane”, “Piazza Navona”), che pur gli valsero il Premio De Sica del 2010, per poi tornare al teatro di repertorio con “Le bugie con le gambe lunghe” e un’edizione rielaborata, molto solente de “La grande magia”, coadiuvato dalla sempre smagliante Carolina della sua vita.  Forse inespressa, quella sua breve vita, per malinteso senso di modestia e fuga dalle mondanità, sino alle altre perle che avrebbe potuto donarci. E che preferisce portare con sé, nel segreto mistero di questa ingiusta caduta di sipario senza più repliche.

n.b. La camera ardente di Luca De Filippo sarà allestita al Teatro Argentina di Roma, lunedì prossimo, 30 novembre


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