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L’incubo di Shaker Aamer,
14 anni a Guantanamo

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Piacerebbe conoscerla meglio, la storia di Shaker Aamer: è un uomo di 48 anni, di origine saudita, residente a Londra, ha acquisito il diritto di risiedervi in maniera permanente avendo sposato una cittadina britannica; e cittadini britannici sono i suoi quattro figli. Per ora tutto regolare. Aamer a fine 2001 viene catturato dai militari statunitensi; si sospetta sia un terrorista; si sospetta che sia affiliato a un gruppo di talebani; si sospetta che sia legato ai terroristi che fanno capo a Osama bin Laden. Lui dichiara di trovarsi in Afghanistan al seguito di un’associazione di volontariato, respinge ogni accusa. Non viene creduto. Lo rinchiudono a Guantanamo, nel super-carcere speciale per “sospetti terroristi di al Qaeda”, realizzato all’interno della base militare USA sull’isola di Cuba.

Da quel momento Shaker Aamer è il prigioniero “239”. Lui dice di essere stato sottoposto a maltrattamenti, di aver patito torture. Quello che è sicuro che trascorre quattordici lunghi anni nel super-carcere speciale di Guantanamo, accusato di essere un terrorista.

L’altro giorno, lo rilasciano. Lo imbarcano su un aereo, e lo rispediscono a Londra, a casa sua. Si sono accorti di aver commesso un clamoroso errore? Ha scontato la pena per i reati per i quali era stato fermato? Si è “pentito”…o cosa? Nulla, non si sa. Perché Shaker Aamer per tutti i quattordici anni della sua detenzione non è mai neppure stato incriminato, e tantomeno processato. E allora? Allora mistero. Perché questi lunghi quattordici anni rinchiuso nel super-carcere speciale di Guantanamo? Aamer denuncia di aver subito torture da parte di militari americani, di averle viste fare ad altri prigionieri, anche alla presenza di agenti britannici; ora che è libero di parlare, potrebbero emergere  altri “dettagli” imbarazzanti per i governi di Washington e Londra. Ma forse no: Aamer potrebbe seguire l’esempio di altri prigionieri britannici tornati dallo stesso inferno: hanno siglato un accordo col governo per tacere in cambio indennizzi da milioni di sterline per le violenze subite in carcere. Piacerebbe davvero saperne di più…

Piacerebbe saperne di più sul conto del regista iraniano Keywan Karimi condannato a sei anni di carcere e 223 colpi di frusta; Karimi è ritenuto colpevole di “propaganda antigovernativa” e “insulto nei confronti di ciò che è sacro” a causa di certe scene contenute in un suo film. Inaccettabile. Non solo:  paradossale: perché le scene sotto accusa non sono mai state girate, nel film non ci sono.

Piacerebbe saperne di più sul conto di Bao Zhuoxuan, un ragazzo cinese di 16 anni, perseguitato dal regime. Bao è figlio di Wan Yu, attivista di un movimento per i diritti civili, per questo in carcere. Anche la madre, avvocatessa, a causa del suo impegno, è in carcere. La persecuzione si tramanda di generazione in generazione. Essendo figlio di suo padre e di sua madre, è colpevole. Decine di avvocati cinesi hanno firmato un documento col quale si chiede alle autorità di mettere la parola fine su questa persecuzione; una settantina, i firmatari.

Questa invece è la notizia relativa a un Olocausto in corso: quasi cinque milioni di bambini sono condannati a patire la fame a causa di una crisi alimentare in Etiopia che non ha precedenti; una carestia dovuta alla forte siccità che colpisce vaste zone del paese. Secondo “Save the Children”, almeno 350 mila bambini sono già gravemente malnutriti; rischiano, se non curati, di morire. La siccità è causata da una forma particolarmente violenta del fenomeno “El Nino”, e ha colpito direttamente più di 8,2 milioni di etiopi in un’area geografica paragonabile all’Italia.

Sono notizie che hanno avuto pochissima o nessuna eco. Sicuri che non interessino, che sia meglio dedicare i nostri spazi informativi a quello che vediamo campeggiare nei titoli e nelle prime pagine dei nostri mezzi di comunicazione, e ignorare quello che accade sul fronte dei diritti civili e umani?

Qualche anno fa qualcuno concepì l’idea di un format della Rai, nell’ambito dei servizi pubblici forniti o da fornire, per occuparsi specificatamente di diritti civili e umani: una sorta di “Nessuno tocchi Caino” o Amnesty International dell’informazione. Beppe Giulietti si spese, Marco Pannella e i radicali addirittura fecero per alcuni giorni uno sciopero della fame per sostenere l’idea; altri politici che si occupavano di informazione in modo specifico e continuativo diedero il loro consenso; per un po’ se ne parlò, si fecero anche nomi di possibili candidati a guidare il format, senza tuttavia farne nulla.

Peccato: l’idea era buona: servizio pubblico è – o almeno dovrebbe essere – anche gettare squarci di luce su quello che accade nelle carceri o in altre istituzioni chiuse e totalizzanti, le persecuzioni di popoli ed etnie, le discriminazioni, le esecuzioni capitali, e tutto quello che confligge con la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo. Ci sono una quantità di notizie che ogni giorno meriterebbero di essere portate alla nostra conoscenza e vengono invece ignorate. I carnefici ricavano grandi vantaggi dal silenzio; e il silenzio è il loro miglior alleato, il loro più prezioso complice.

Peccato davvero che quel format non ci sia, neppure una piccola rubrica dei diritti umani.


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