Dopo lo shock, il dolore che resta e la paura che si radica tra la gente, ci si chiede che tipo di risposta è possibile dare sul piano politico e militare agli attentati di Parigi, ma anche sul piano sociologico per quanto riguarda le reazioni popolari all’interno dei Paesi nel mirino del sedicente Stato islamico. Intervista a Dario Fabbri, analista della rivista di geopolitica “Limes”.
Alcuni analisti hanno osservato che il vero protagonista di questi eventi non sia in realtà l’Occidente, ma il mondo islamico. Qual è il tuo parere?
E’ corretto. La nostra società occidentale non è l’obiettivo primario degli attentatori, noi fungiamo semplicemente da sponda. Ci utilizzano – e forse questo è ancora più drammatico – per legittimarsi in casa propria, in una guerra che è tutta interna al mondo musulmano, che vede da una parte, anzitutto, sunniti e sciiti, ma anche fondamentalisti e musulmani invece più moderati: guerra in cui noi appunto non siamo l’obiettivo definitivo, ma semplicemente uno strumento nelle loro mani.
Quale risposta sul piano operativo è possibile dare?
Da un punto di vista strettamente militare, per sgominare lo Stato islamico serve un esercito che lo affronti sul terreno. La guerra dal cielo non può scalfire le installazioni del Califfato, perché poi ci vuole chi vada a combatterlo sul serio e, al momento, è introvabile. Gli unici che lo hanno fatto e lo fanno sono gli iraniani, le milizie sciite e i curdi, specialmente siriani. Non basta, però, perché un conto è sconfiggerli, ammesso che queste fazioni ci riescano, ma non potrebbero poi comunque sostituirli sul terreno, in quanto curdi, quindi non arabi, oppure sciiti, quindi non sunniti, come gli esponenti dello Stato islamico e le tribù che tuttora lo sostengono.
Per ora, però, questo intervento sul terreno viene escluso da tutti i Paesi interessati. E sono in molti, comunque, a chiedere una risposta unitaria sul piano degli intenti, perché questa non c’è stata finora…
Una risposta unitaria efficace può essere quella della guerra economica, ovvero andare ad attaccare il sostentamento dello Stato islamico, il sostentamento che arriva soprattutto da Occidente. Lo Stato islamico, ad esempio, contrabbanda droga, reperti archeologici, petrolio… e spesso i destinatari di questo commercio siamo proprio noi occidentali. Quindi, già interrompere questi flussi in maniera unitaria avrebbe un suo efficace risultato. Allo stesso tempo però, come detto, nessuno – neanche chi chiede una risposta unitaria – ha alcuna intenzione di andare a combatterlo sul terreno e senza questa opzione i bombardamenti fanno semplicemente il gioco del Califfato che, con l‘attentato di Parigi, voleva proprio questo: indurre, cioè, la Francia a bombardarlo così da ritardare il processo di pace, il negoziato di pace, che dietro le quinte sta prendendo piede.
Non solo nessuno vuole scendere sul terreno, ma nessuno scopre esattamente le carte su cosa fare della Siria…
Sul futuro della Siria, un’idea di fondo, almeno dietro le quinte, c’è: si va cioè verso una partizione della Siria. E’ impossibile immaginare una Siria unitaria com’era prima dell’inizio della guerra civile. Probabilmente, si tratterà di una confederazione sul modello della Bosnia. Su questo punto, tutto sommato – anche se c’è da sciogliere il nodo dirimente della presenza o meno di Assad in una fase di transizione – le principali potenze esterne, quindi Russia, Stati Uniti, Iran sono d’accordo. Resta però da risolvere il nodo dello Stato islamico, ovvero chi dovrà ancora una volta sgominarlo, senza dimenticare che lo Stato islamico rappresenta qualcosa di endemico, cioè l’insurrezione sunnita, che esisterebbe indipendentemente da questa forma dello Stato islamico.
Per quanto attiene la risposta invece interna, per garantire la sicurezza dei Paesi che sono nel mirino dei miliziani dell’Is, molti invocano un ruolo più forte delle “intelligence”…
Le “intelligence” sono utili per quanto riguarda il fenomeno criminologico, terroristico, ma per quanto riguarda invece l’aspetto maggiormente sociologico – quello della cosiddetta “peste comunitaria”, delle sacche di emarginazione, di disperazione, che poi diventano facile preda di strampalate ideologie jihadiste – su questo versante le “intelligence” possono fare ben poco e il problema è appunto sociologico.
Bisognerà, quindi, anche rivedere e agire con maggiore efficacia per quanto riguarda l’integrazione di tanti musulmani che abbiamo nei nostri Paesi…
Bisognerebbe, ad esempio, decostruire i ghetti in cui li abbiamo allontanati, in cui li abbiamo incastonati ormai diversi decenni fa. Inoltre, è evidente che la disperazione anche economica poi renda persone, giovani specialmente, più o meno disperate, facili prede di una seduzione come può essere quella della guerra santa o di altre ideologie, che promettono a chi le accoglie, in maniera del tutto folle, di uscire dalla disperazione quando poi sappiamo che non è vero.
Ma se abbiamo detto che è il mondo musulmano protagonista di questi tragici eventi, anche perché in massima parte, numericamente, sono loro le vittime dello Stato islamico, bisognerà poi dialogare perché siano loro ad avere una reazione sia nei Paesi arabi sia nei Paesi di emigrazione…
Il problema non è religioso, non lo è affatto. La guerra, in questo caso riguardante la Siria, riguarda una minoranza di confessione alawita, quindi sciita, che governa con il pugno duro da decenni a Damasco il resto della popolazione, che è a maggioranza sunnita. C’è quindi una differenza di confessione tra le due parti del Paese, ma si combatte soprattutto per la conquista del territorio in cui queste minoranze vivono e fra chi dovrà gestire poi il potere in Siria. Quindi, la religione è di fatto un veicolo, un mezzo dello scontro, ma la contesa è tutta geopolitica e territoriale: riguarda le risorse che sono presenti sul territorio, riguarda il controllo della popolazione e riguarda appunto chi dovrà governare la Siria, che non potrà mai più essere un Paese unito, almeno come lo immaginavamo cinque o sei anni fa.