Veniamo da una lotta di classe che si svolgeva sul piano sociale (interno) della distribuzione di ricchezza e diritti e la guerra (esterna) tra nazioni, che avveniva sul campo militare. Il conflitto tra religioni interferiva più su quest’ultimo versante.
Con l’emergenza jihatista, questi tre contesti – tradizionalmente specifici – si sono mischiati. E dalla loro miscela è nata la “guerra ibrida”. Che contiene in sé la pressione trans-nazionale delle masse dei poveri della terra contro il primo mondo benestante; la conquista militare di territori da aggiungere a stati esistenti (Russia, Israele, ecc.) o nascenti (Daesh, frazioni di Libia, di Siria, ecc.), nonché la strumentalizzazione conflittuale dei monoteismi identitari su vasta scala.
Questa multi-polarità della “guerra ibrida” rende inservibile ogni analisi tradizionale e del tutto inadeguate le risposte mono-livello.
Bombardare (livello militare) altri territori non serve, quando i terroristi nascono nelle proprie periferie e non si agisce sulle ingiustizie sempre più marcate – domestiche ed internazionali – dovute alla squilibrata distribuzione di ricchezza e diritti (livello sociale). Scompensi questi che affamano e umiliano milioni di persone, l’enorme vivaio della disperazione di chi ha poco o niente da perdere. In questo complicato intreccio di bisogni non soddisfatti, non ha senso fermarsi alla richiesta di una presa di distanza dei mussulmani moderati verso le loro frange estreme, se non si attivano processi alternativi generatori di dignità.
Occorre riconfigurare le analisi per avere soluzioni efficaci.
Capire che la globalizzazione ha fatto un salto di qualità: non è solo riduzione di distanze, ma anche addensamento di istanze.
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