Alle 14 ora locale, 8,30 in Italia, il partito al governo della Birmania ha ammesso la sconfitta alle elezioni presidenziali nei confronti del partito all’opposizione guidato dal premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. I primi a darne notizia sono stati i colleghi dell’emittente nazionale cinese Cctv. Poco dopo la dichiarazione del presidente ad interim del Usdp, Htay Oo, che in un’intervista a Reuters ha ammesso “Abbiamo perso”.
Lo avevamo scritto con la convinzione dettata dalla speranza che un reale processo democratico in Birmania fosse possibile.
E il 2015 si è rivelato, come auspicavano, l’anno della svolta.
Anche se la commissione elettorale non ha ancora diffuso il risultato ufficiale, la Lega nazionale per la democrazia (Nld) ha annunciato che secondo i dati parziali ha ottenuto più dell’80% nelle regioni centrali del Paese e il 65% negli Stati di Mon e Kayin. Mancano i dati di altri cinque Stati, ma è ormai chiaro che la maggioranza degli aventi diritto al voto che si è recata alle urne per le elezioni generali parlamentari ha espresso con forza la preferenza alla National League for Democracy.
La prima tornata elettorale aperta alle minoranze politiche dal 1990, che vide contrapporsi ai militari l’allora neo fondata formazione della San Su Kyi, figlia di Aung San uno dei simboli della lotta per l’indipendenza del Myanmar, si è svolta in un clima nuovo. Un clima molto diverso di quelle elezioni che videro il partito della leader dell’opposizione raggiungere il 59% dei voti, ottenendo 392 seggi su 492 e scatenando la reazione del regime che impedì l’insediamento del nuovo parlamento e arrestò la Sn Su Kyi e uccise molti esponenti dell’opposizione.
Ma nel 2012 con un voto storico in aprile che vide il premio Nobel per la pace, che aveva trascorso quindici anni tra carcere e arresti domiciliari, vincere le elezioni suppletive al termine di un anno di forti cambiamenti nel Paese, il popolo birmano ha ricominciato a sperare.
Negli ultimi tre anni sono stati rilasciati molti prigionieri politici, ci sono stati colloqui con ribelli di minoranze etniche e si è allentata la censura sui media.
Prospettive ben diverse dalle precedenti presidenziali quando, nonostante le pressioni di UE e ONU le aspettative di un’apertura verso il processo democratico non furono confermate.
Negli ultimi mesi qualcosa è però cambiata. Le modifiche alla costituzione birmana, la nuova legge elettorale e le stesse azioni della giunta militare hanno mostrato finalmente che le richieste e gli appelli della comunità internazionale non sono cadute nel vuoto.
Ma non sono stati solo i tour diplomatici e dei rappresentanti delle agenzie ONU, che si sono alternati negli ultimi anni in Birmania, a convincere il regime che questa volta le elezioni non potessero che essere vere, libere ed eque.
E’ stata soprasttutto la spinta interna, mai così forte e compatta, a pretendere che le elezioni non si trasformassero in una farsa per garantire la transizione da una dittatura militare a una dittatura civile, nella speranza che un parlamento ‘democratico’ solo di facciata fosse sufficiente a persuadere la comunità internazionale a revocare le sanzioni e ad allentare la pressione diplomatica.
Ora, però, la transizione al processo democratico del Myanmar, che con la figura di Aung San Suu Kyi rappresenta un esempio per le democrazie occidentali affaticate e indebolite, deve essere sostenuta e ‘protetta’.