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Voyage en Barbarie, la tratta degli schiavi e la ricerca della normalità

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“Se qualcuno pensa che ci possa essere democrazia o un sistema multipartitico in questo paese… allora questo pensiero appartene sicuramente ad un altro mondo”.
Isaias Afewerki è il presidente-padrone dell’Eritrea. Insediatosi nel 1993, anno di indipendenza dall’Etiopia, Afewerki governa da oltre vent’anni uno dei paesi più poveri e chiusi del mondo. Il servizio militare obbligatorio (spesso a tempo indeterminato) prevede l’addestramento per i minori e i lavori forzati per le reclute e i prigionieri politici e di coscienza. I diritti umani non esistono e, laddove abbozzati, sono oggetto di costanti violazioni accompagnate da esecuzioni sommarie, sparizioni e torture.
La povertà, la fame e soprattutto la paura costringono gli Eritrei alla fuga. L’istinto di sopravvivenza li spinge a mettere a repentaglio la propria vita pur di raggiungere una meta che consentirà loro un’esistenza dignitosa.
“Voyage en Barbarie” è un documentario realizzato da Cécile Allegra e Delphine Deloget avente come oggetto le migrazioni del popolo Eritreo alla volta della Somalia, del Sudan e di altre “terre promesse”. Teatro del filmato è il Sinai, luogo di transito per i viaggiatori diretti a Khartum, nonché territorio di caccia per i beduini impegnati nella tratta degli schiavi. Il business è semplice, spregevole e redditizio: i giovani vengono catturati da predoni armati, venduti a terzi e stipati in campi di prigionia. Qui, dove la condizione stessa di “essere umano” viene spogliata del proprio percepito comune, i detenuti vengono picchiati, marchiati e torturati. Il tutto avviene in diretta telefonica con le famiglie, dove le urla e lo strazio dei figli rappresentano il certificato di garanzia per la richiesta di un riscatto.
Voyage en Barbarie è un documentario diretto e senza fronzoli, ma al contempo molto doloroso. Doloroso nell’improvviso morso di coscienza dovuto alla totale non curanza riservata all’argomento; doloroso per il silenzio diffuso e qualunquista condiviso da tutti i più importanti mezzi di comunicazione; doloroso per l’occhio (le cicatrici e i corpi mutilati) e per l’udito, perché la gente che “prega di morire” non vorresti mai sentirla.
La gente scappa dall’Eritrea e mette in conto anche questo. Percorre centinaia di kilometri nel deserto, a bordo di camion sovraccarichi, senza acqua né cibo. Partono armati della sola speranza e alcuni, i più fortunati, raggiungono le coste europee inseguendo un sogno chiamato “normalità”. Li vogliamo davvero rimettere nei barconi?


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