di Vittorio Agnoletto, già presidente della Lega italiana per la lotta all’Aids ed europarlamentare, oggi è membro del board internazionale del network Freedom Legality And Rights in Europe.
«La rapina delle risorse naturali e lo sfruttamento coloniale sono fatti acclarati, ma non conclusi. Oggi proseguono affiancando a strumenti già da tempo in uso, quali le guerre per procura (come ad esempio in Congo o in Sudan), l’appoggio a dittatori di ogni risma (non ultimo il generale al Sisi in Egitto), altri strumenti ideologicamente e tecnicamente più sofisticati quali le guerre per esportare la democrazia in Afghanistan, Libia, Siria, Iraq… e gli accordi commerciali come gli Epa tra Ue e Africa subsahariana».
Giovedì 19 luglio 2001 un corteo di decine di migliaia di persone, accompagnate da musica e danze attraversava il centro di Genova, non c’erano ancora state la repressione, le torture e la morte di Carlo Giuliani. Era il corteo con e per i migranti, per la libera circolazione delle persone; era l’espressione di un movimento consapevole che aveva colto che i migranti sarebbero stati il paradigma della globalizzazione liberista, le vittime designate di un modello di sviluppo che faceva del mercato il suo Dio e dell’infinita voracità di ricchezza e potere il proprio Vangelo. Secondo il rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, nel 2014 vi erano 59,5 milioni di migranti forzati rispetto ai 37,5 milioni di dieci anni prima. Nel 2014, ogni giorno 42.500 persone in media sono diventate rifugiate, richiedenti asilo o sfollati interni; in tutto il mondo lo è una ogni 122 persone.
I rifugiati e i richiedenti asilo sono solo una parte dei migranti. Tutto il confronto odierno dentro l’Ue è tra politiche di accoglienza e muri xenofobi. Ed è giusto che sia questa la discussione. Ma ci servirebbe molto per orientarci nelle scelte un sano esame di coscienza che aiutasse ciascuno a riconoscere le proprie responsabilità.
La rapina delle risorse naturali e lo sfruttamento coloniale sono fatti acclarati, ma non conclusi. Oggi proseguono affiancando a strumenti già da tempo in uso, quali le guerre per procura (come ad esempio in Congo o in Sudan), l’appoggio a dittatori di ogni risma (non ultimo il generale al Sisi in Egitto), altri strumenti ideologicamente e tecnicamente più sofisticati quali le guerre per esportare la democrazia in Afghanistan, Libia, Siria, Iraq… e gli accordi commerciali come gli Epa (accordi di libero scambio) tra Ue e Africa subsahariana che stanno fortemente contribuendo a distruggere l’agricoltura africana e che ogni anno secondo i dati Onu erodono una buona parte del Pil nazionale di quei paesi.
Non ha limiti il commercio delle armi; secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, il volume degli scambi di armi pesanti nel periodo 2009-2013 è stato in media del 14% più elevato di quello del periodo 2004-2008. Ai primi posti troviamo Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna, Germania e Spagna; l’Italia è al nono posto per un totale di 786 milioni di dollari. Tutte nazioni formalmente in prima linea a trovare soluzioni di pace nei più disparati angoli del mondo.
Negli ultimi cinque anni sono scoppiati, o si sono riattivati, almeno 15 conflitti: otto in Africa (Costa d’Avorio, Repubblica Centrafricana, Libia, Mali, nord-est della Nigeria, Repubblica democratica del Congo, Sud Sudan e Burundi); tre in Medio Oriente (Siria, Iraq e Yemen); uno in Europa (Ucraina) e tre in Asia (Kirghizistan, e diverse aree del Myanmar e del Pakistan). Le situazioni di guerra in Afghanistan, Somalia e in altri paesi durano da decenni. Non è un mistero che dove le armi legalmente non potrebbero arrivare, vi giungono per interposta destinazione.
«È terrificante – ha dichiarato l’alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, António Guterres – che da un lato coloro che fanno scoppiare i conflitti risultano sempre più impuniti, e dall’altro sembra esserci apparentemente una totale incapacità da parte della comunità internazionale a lavorare insieme per fermare le guerre e costruire e mantenere la pace». Considerazione reale, anche se destinata ad apparire quanto mai retorica.
I profughi ambientali, sebbene non sia facile realizzare un censimento sufficientemente preciso, intrecciando i dati dell’ International Organization of Migration, dell’Asian Development Bank e del settore internazionale di Legambiente, risultano essere già oggi decine di milioni e alcuni studi parlano di un miliardo nel 2050. Anche in questo caso i maggiori responsabili delle emissioni di gas ad effetto serra non sono certo i paesi dai quali fuggono i migranti.
Quando si discute di accoglienza con la sensazione, sociale e personale, di compiere un’opera buona, un fioretto, sarebbe forse bene ricordarsi tutto questo, assumersi le proprie responsabilità ed essere consapevoli che si sta solo cercando di riparare in minima parte ad un danno del quale il mondo occidentale continua ad essere almeno corresponsabile. Nessun buonismo, ma atti dovuti.
Se tutto ciò ci aiutasse anche a riflettere sul destino del pianeta, al quale tutti apparteniamo, non sarebbe poi male.
(pubblicato su Confronti di ottobre 2015)