Di Pino Salerno
Il Sinodo ordinario che ha per tema la famiglia si è aperto lunedì con una esortazione molto chiara di papa Francesco, che dopo le controversie e i contrasti sorti nei giorni precedenti, ha voluto ribadire ai 270 vescovi e ai 90 ospiti il senso di questo appuntamento eminentemente ecclesiastico. “Vorrei ricordare che il Sinodo”, ha precisato papa Francesco, volendo mettere una pietra tombale sulle polemiche interne ed esterne, “non è un convegno o un ‘parlatorio’, non è un parlamento o un senato, dove ci si mette d’accordo. Il Sinodo, invece, è un’espressione ecclesiale, cioè è la Chiesa che cammina insieme per leggere la realtà con gli occhi della fede e con il cuore di Dio; è la Chiesa che si interroga sulla sua fedeltà al deposito della fede, che per essa non rappresenta un museo da guardare e nemmeno solo da salvaguardare, ma è una fonte viva alla quale la Chiesa si disseta per dissetare e illuminare il deposito della vita”.
Papa Francesco e l’esortazione ad aprire la Chiesa e le chiese per evitare i musei
Quale sia il significato di queste parole, in realtà, non è così chiaro come sembra da una prima lettura. Sostenere che un Sinodo non sia un Parlamento, dove si cerca il compromesso tra posizioni divergenti, era il minimo che il papa potesse fare, soprattutto rispetto a quella maggioranza di laici (anche cattolici) ai quali questa “ovvietà” sfugge. Il punto vero è che questa volta papa Francesco è apparso più ermetico del solito, almeno dal punto di vista della definizione di Sinodo e di Chiesa sinodale, rappresentata dalla metafora del “museo”. Non è la prima volta infatti che papa Francesco invita ad aprire la Chiesa e le chiese, perché quando sono chiuse rischiano di diventare “musei”. Ma l’apertura di cui parla spesso Francesco ha anche il senso di accoglienza, soprattutto per coloro che soffrono e che sono nella condizione del “peccato” o del reato, come nel caso di coloro che scontano una pena in un carcere. Dunque, la questione diventa quella legata alla dottrina e all’ortodossia, perché se si apre e quando si apre, non si può pensare di scegliere, di privilegiare, o di selezionare, coloro che vi entrano. Tutto ciò che questo papa ha deciso e continua a decidere è il frutto di una premessa su apertura necessaria e accoglienza senza privilegi: l’enciclica dedicata alla Terra, l’indizione del Giubileo straordinario sulla misericordia, un Sinodo sulla famiglia che dura tre settimane, e i diversi viaggi tra Sudamerica, Stati Uniti, e probabilmente in Cina. Quando si assume come centro la riflessione di papa Francesco sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, non più museo, ma “fonte viva” se ne capiscono meglio le intenzionalità profonde.
La rivoluzione francescana osteggiata da parte della gerarchia
Certo, non è ancora quel passaggio dall’ortodossia all’ortoprassi, più volte invocato da teologi come padre Leonardo Boff o perfino da Hans Kung, e neppure un abbandono o un distanziamento dalla dottrina della fede. Ma certo, il tentativo di “aprire” la Chiesa e le chiese, nell’epoca della secolarizzazione e della scristianizzazione diffusa, e del fondamentalismo religioso omicida, pone a tutti i cattolici, a partire dai membri della gerarchia vaticana, profonde domande di senso, che scuotono alla radice perfino le loro certezze religiose. Ecco perché talvolta la “rivoluzione francescana” sembra cozzare contro certezze dottrinali e dogmi non facilissimi da superare.
Il teologo Bruno Forte, vescovo di Chieti, coglie la sfida pastorale
Chi meglio ha compreso questa realtà ecclesiastica è il teologo Bruno Forte, vescovo di Chieti. Bruno Forte ha commentato così l’inizio di questo Sinodo: “Fermo restando che non ci si devono aspettare modifiche alla dottrina – premette Forte – bisogna dire con grande chiarezza che questo Sinodo non si riunisce per non dire nulla. Non è però un Sinodo dottrinale, ma pastorale. Le sfide pastorali ci sono e noi vogliamo affrontarle con parresia, ovvero con estrema franchezza e con un profondo senso di responsabilità”. Per l’arcivescovo di Chieti e teologo, “affrontare le questioni pastorali e cercare nuove strade per nuovi approcci rende la Chiesa più vicina alle donne e agli uomini del suo tempo. La Chiesa – sottolinea monsignor Forte – non può restare insensibile alle sfide: questa è la vera posta in gioco del Sinodo”. Dunque, il teologo Bruno Forte coglie il senso della “rivoluzione francescana”: affrontare la sfida, senza rinchiudersi nel recinto dottrinario. È ovvio che questa posizione sia osteggiata in Vaticano da cardinali e vescovi come Camillo Ruini, attento non alla tradizione in quanto tale, ma al potere che quella tradizione concede loro. Al contrario di Bruno Forte, teologo della misericordia e dell’accoglienza, per il quale la fede è più importante del comportamento morale, Camillo Ruini ha da sempre sostenuto i dogmi morali a discapito della fede, come se la funzione storica della Chiesa potesse risolversi esclusivamente nei “comandamenti morali”, con la durezza, il fariseismo e il cinismo che ogni dogma morale porta con sé. La vera grande frattura che si sta “celebrando” nella Chiesa di papa Francesco è dunque di natura teologica: vi sono coloro che per-donano, in nome della fede, e coloro che dogmaticamente e cinicamente non per-donano perché sanno che sui comportamenti morali la loro presa di vescovi e cardinali ne legittima il potere sui credenti.
Il vescovo di Budapest, Erdo, apre il Sinodo con una relazione dogmatica e dottrinale
E che la frattura sia profonda, nella natura teologica e filosofica dello scontro in atto, lo si rileva anche nella relazione introduttiva al Sinodo, a cura del cardinale Peter Erdo, arcivescovo di Budapest. In alcuni passaggi, il testo della relazione è sembrato più un compendio di Dottrina morale che un messaggio di speranza pastorale, come avrebbe voluto Bruno Forte. Sul matrimonio, infatti, il vescovo di Budapest, come da catechismo, recita: “Ciò che impedisce alcuni aspetti della piena integrazione non consiste in un divieto arbitrario, ma è un’esigenza intrinseca richiesta in varie situazioni e rapporti, nel contesto della testimonianza ecclesiale”. Infatti, “riguardo ai divorziati e risposati civilmente, è doveroso un accompagnamento pastorale misericordioso il quale, però, non lascia dubbi circa la verità dell’indissolubilità del matrimonio insegnata da Gesù Cristo stesso. La misericordia di Dio offre al peccatore il perdono, ma richiede la conversione”. Tradotto per laici e non credenti: “la Chiesa può perfino prendere atto del fallimento del matrimonio e della sofferenza che ciò ha comportato in entrambi i coniugi, ma l’unione resta indissolubile”. Quindi, il peccato non risiede nel fallimento del primo matrimonio, “ma è la convivenza nel secondo rapporto che impedisce l’accesso all’eucarestia”. Per questo vescovo, non basta una sola sofferenza, ce ne vogliono due. Per il vescovo Erdo, coerente col catechismo e col dogma morale, “l’integrazione dei divorziati risposati nella vita della comunità ecclesiale può realizzarsi in varie forme, diverse dall’ammissione all’Eucarestia”. Ma, sempre a beneficio dei laici e dei non credenti, va detto che il centro cristologico di ogni credente è proprio l’eucarestia. Se non vi si è ammessi per ragioni morali, che senso ha la fede? Ancora una volta, e con farisaico cinismo, si afferma la superiorità del comportamento sulla fede. Eppure, proprio nella Liturgia della messa, poco prima della Comunione, il sacerdote dice queste testuali fondamentali parole: “O Signore, non guardare ai nostri peccati ma alla fede della tua Chiesa”. Parafrasando, si potrebbe riscrivere: “Cara Dottrina non guardare ai miei peccati, ma alla fede del peccatore”. In linguaggio cattolico, questa è la rivoluzione “della misericordia”.
E non solo. Erdo si spinge fino al punto di negare la possibilità dell’amore in una coppia omosessuale con parole disumane e offensive: “Non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia”. Si tratta non solo di abnorme errore antropologico, ma anche di uno scivolone teologico. Il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia? E quale? Quello che convinse Mosè a dettare le leggi del ripudio della moglie anche se avesse fatto bruciare un uovo? Oppure quello che l’evangelista Marco riepiloga nella reazione di Gesù Cristo contro le provocazioni dei farisei sul ripudio? Se la legge evangelica prevalente è quella dell’amore, come si può dire, teologicamente, che “il disegno di Dio non ha analogie con le unioni omosessuali”? E poiché il contrasto tra Antico testamento e Vangelo è evidente, qualche dogmatico cattolico ha pensato bene di dichiarare l’omosessualità una patologia, una malattia, come la scarlattina.
Nonostante papa Francesco, emerge una Chiesa ancora cattiva e poco evangelica
Ma nelle parole del vescovo Erdo non solo questa Chiesa cattiva è contro l’amore, ma è anche poco misericordiosa, ad esempio, nei confronti di chi, sottoposto a indicibili sofferenze non ce la fa più e decide, attraverso quella che Agostino di Tagaste avrebbe celebrato come la più grande libertà dell’uomo, l’arbitrio, la possibilità di decidere su vita e morte, decide di mettervi fine. L’eutanasia resta vietata, come l’aborto. Ora, però, se la contrarietà all’aborto ha una sua legittimità sulla quale si può non essere d’accordo, ma è forte e solida, l’affermazione dell’eutanasia come negazione del “carattere inviolabile della vita umana” rasenta il ridicolo. La Chiesa contemporanea accetta il dominio della tecnica, ed è la tecnica che consente di mantenere in vita, “artificialmente”, malati terminali, a costo di sofferenze indicibili. La tecnica della “vita artificiale” è nella maggioranza dei casi una violazione chiarissima della inviolabilità della vita umana. Possibile che questi “teologi” non capiscono che se una persona decide di farsi “attaccare” a una macchina per sopravvivere, ha anche il diritto di decidere quando staccarsene? E se non è attaccato a una macchina, e soffre comunque, non è una violazione della sua vita sottoporlo a sofferenze affatto necessarie? È cristiano tutto questo? Risponde alla legge evangelica dell’amore? No, perché esiste ancora una gerarchia vaticana che teme di perdere il suo potere più grande: quello di dire agli uomini quando nascere e quando morire.