La giornalista e scrittrice bielorussa, che ha vinto questa mattina il premio Nobel per la letteratura, nel 2001 è intervenuta all’ottava edizione del seminario per giornalisti Redattore sociale: “Né gli Usa né l’Europa hanno proposto altri modi di lottare contro il male se non la forza delle armi”
ROMA – È andato a Svetlana Alexievich il premio Nobel per la letteratura, scrittrice e giornalista bielorussa costretta a lasciare il suo paese perché accusata di essere una collaboratrice della Cia. Autrice di grandi reportage “corali”, che indagano sulla storia dell’ex Unione Sovietica a partire dal secondo dopoguerra, ha raccontato in maniera esemplare la fine del comunismo, la guerra Afghanistan-Unione Sovietica, la vita nella zona di Chernobyl dopo l’esplosione della centrale nucleare. I suoi scritti si basano su centinaia di testimonianze orali, raccolte pazientemente nel coeso di anni. Tra i suoi volumi più noti “Preghiera per Chernobyl” (E/O), “Ragazzi di zinco” (E/O) e “Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo” (Bompiani). Nel 2001 il futuro premio Nobel ha partecipato all’ottava edizione di “Redattore sociale”, il seminario di formazione dedicato ai giornalisti, organizzato ogni anno dalla nostra agenzia. Qui sotto uno stralcio dell’intervento che la reporter ha svolto in quella sede, intervistata da Maria Nadotti dinanzi a una platea di operatori dei media.
“Ricordo un episodio. Una volta ero in tribunale e sul banco degli imputati c’erano persone anziane. Vedevo persone anziane raffreddate che tossivano, che si soffiavano il naso, qualcuno piangeva e ho capito che il nostro animo non sa come comportarsi di fronte all’uomo. Siamo indifesi di fronte al male, perché senti pietà per questa persona, anche se lui dice: “sì, li ho bruciati!” Questa persona raccontava come lo aveva fatto, e mi ricordo in uno dei giorni del processo, quando sono uscita dal tribunale, avevo capito che il male non è che lo puoi vedere, capire e scrivere, descrivere. Credo che l’obiettività in quanto tale non esiste. Quanti siamo qui presenti? Abbiamo tante verità. Tutti noi presenti in questa sala, compresa me, dobbiamo imparare qualcosa. È difficile dire che c’è un senso nell’orrore, ma noi dobbiamo capire l’orrore, altrimenti ci fermiamo, come spesso succede. La persona è talmente rovinata dagli orrori, l’orrore è talmente banalizzato, l’orrore di oggi deve diventare più orribile dell’orrore di ieri, che questo mostro dobbiamo trattarlo con molta attenzione. Per questo, io l’ho capito durante quel processo, bisogna preparare non solo la propria mano, la propria penna, ma preparare il proprio animo.
Quando scrivevo della guerra mi sembrava che le donne, i bambini avessero le maggiori caratteristiche di persone, persone libere. La donna per la natura stessa, perché partorisce la vita e il bambino perché è una creatura innocente. Più tardi, quando questi libri sono stati scritti, hanno suscitato le proteste della società. Hanno parlato del pacifismo, del naturalismo e il sistema non li ha accettati, la coscienza di massa non li ha accettati. Non so come è qui da voi, ma da noi un artista, uno scrittore, nello spazio dell’ex Unione Sovietica vive tra i due conflitti: il conflitto con il potere, che è un conflitto eterno, ma anche un conflitto ancora più tremendo, il conflitto con la coscienza di massa. Il censore tremendo non è il redattore, né Berlusconi, né qualcun altro, il censore più tremendo sono le nostre coscienze accumulate sul che cosa conosce l’uomo e che cosa non deve sapere. La donna, parlando della guerra, non parla mai della vittoria ad esempio. Diceva: “la battaglia è finita e la cosa più tremenda è che io come infermiera dovevo passare sul campo di battaglia per controllare se qualcuno era ancora rimasto vivo. Camminando – diceva questa donna – vedevo solo i giovani, i ragazzi, che stavano in mezzo all’erba e guardavano il cielo. E mi facevano pena, tutti mi facevano pena”.
Durante le prime conferenze con i lettori questa parola “pietà” suscitava delle proteste non solo dei censori, ma anche del pubblico, perché dicevano: come potete aver pietà per il nemico? La questione del valore della vita in quanto tale non si poneva. Il libro inizia dal racconto di un orfanotrofio. Cosa fanno i bambini in un orfanotrofio? Aspettano mamma e papà. Entrano i tedeschi, i bambini sono appesi alle finestre, guardano dalle finestre, si buttano al collo di questi tedeschi e li chiamano papà, dicono sono arrivati i papà. Invece loro sono venuti per prenderli, per portarli all’ospedale e per prendere il sangue, perché il sangue serviva per i feriti e questo scontro di due mondi faceva pensare. Per esempio c’è un bambino che racconta: “hanno ucciso la mia mamma mentre stava ricamando. Io che cosa ho cercato di fare? Far scontrare questa pazzia, quest’orrore con qualcosa, non collezionare il male, non c’è nessun senso a collezionare il male, perché il male si riproduce e si può resistere a questa riproduzione solo penetrando questo male, capendolo e cercando il senso del perché lo raccontiamo.
L’altro libro “I ragazzi di zinco” è dedicato alla guerra nell’Afghanistan. Questo libro mi ha aiutato a liberarmi dall’illusione dell’utopia. Io ero persona del mio tempo, facevo parte di quel male. Ora voi parlate di utopia del socialismo, che sembra una cosa chiara, invece adesso lo vediamo che era un male, era un male vissuto da noi, il male quotidiano. Nonostante tutti gli orrori io ho capito quanto il male possa nascondersi, come possa acquisire un aspetto di normalità e che noi dobbiamo stare molto attenti, avere un orecchio sensibile, essere pronti a capire, a vederlo questo male. Nel mondo di oggi da una parte questo male ha acquisito delle dimensioni enormi, si mimetizza e ci distrugge ogni giorno. L’esperienza più grande del libro “I ragazzi di zinco” è stato proprio il fatto di liberarmi da questo male globale in quanto utopia. Mi ha liberata dall’illusione che la forza possa fare qualcosa contro il male. Secondo me né gli Stati Uniti, né l’Europa hanno proposto altri modi di lottare contro il male se non la forza, le armi. Lì bastava parlare con un nomade per capire che lo spazio umano può essere riempito di altre cose, non di quello di cui è riempito qui in Europa. Lì ci sono altri fattori, altri fondamenti della forza e della debolezza e, quando un moujahdin, sa che morirà domani lo vedi parlare tranquillamente della pace del mondo e guardare con molta calma e serenità alla morte. Mi ricordo una conversazione con due afghani che sarebbero morti il giorno dopo: per noi qui la morte è paura, per loro no, perché loro sono liberi da questo pensiero, per noi sono kamikaze, ma per loro è una forma di libertà, quindi non ci è possibile comprendere questo mondo.
Dobbiamo capire che è assolutamente insensato uccidere, bombardare, assolutamente insensato condannare e punire qualcuno. Vi sto raccontando il mio rapporto con il male e della mia strada per uscire da questo male. Il mio libro sulla catastrofe di Chernobyl non rappresenta quello che c’è nella nostra coscienza, ma un nuovo volto del male. Vi faccio solo un esempio che mi ha fatto capire che si tratta di un altro mondo completamente diverso. Voi sapete che qualche settimana dopo l’esplosione del reattore decine di migliaia di persone sono state evacuate perché non si poteva più vivere lì, la terra era morta. Io vado lì con i militari durante l’evacuazione degli abitanti, tutti partivano, prendevano solo poche cose che avevano con loro, il resto lo lasciavano, si salvava solo la persona. Arrivano i militari e un colonnello, che dirigeva questa operazione di trasferimento, dice: “c’è una vecchietta che non vuole partire”. Ci avviciniamo e verifichiamo che vicino a una piccola e vecchia casetta c’è una donna con un’icona in mano. Mi vede, l’unica donna tra gli uomini, e mi dice: “figlia mia gli puoi spiegare tu? Io so che cos’è la guerra, ho vissuto la guerra, bombardano, sparano, ci sono le pallottole, guarda qui invece, guardati intorno, ci sono i meli in fiore, ci sono i topi, ho visto i topi che corrono nella mia cantina, gli uccelli che volano, dov’è la guerra? Non c’è nessuna guerra, allora perché dovrei lasciare la mia casa?” E proprio allora in quel piccolo villaggio questa donna ha detto quello che non mi ha detto nessun filosofo, nessuno studioso, nessuno scienziato. Lei, una vecchietta semplice, ha fatto una domanda. Ha chiesto: “che cos’è? Forse questa è una guerra?” Io allora ho capito: sì, è un male con un altro volto, una guerra che non si sente, non c’è l’odore, non si vede nulla, ma è la morte e tu sparisci, non ci sei più.
Il senso del male è proprio in questo: l’annientamento dell’uomo, fisicamente o spiritualmente. Questo è un nuovo male e quando a settembre è successo quello che è successo a New York e tutti noi abbiamo visto, ma più vediamo e meno capiamo. Quando vediamo che gli aerei come in un film attraversano i due grattacieli e tutto quel nostro mondo va al diavolo, noi capiamo che il male si sposta, si muove in qualche modo, in modo molto più veloce rispetto alle nostre conoscenze, rispetto alla tecnologia, rispetto alla parola e forse più veloce della nostra paura. Forse non ci siamo neanche spaventati davvero, perché l’uomo non può aver paura di quello che ignora, di quello che non sa. ?Mi ricordo un pilota di elicottero durante la catastrofe di Chernobyl che lavorava vicino al sarcofago e stava morendo. Mi ha telefonato, ha detto: “devo morire fra qualche mese venga presto”. Sono andata a trovarlo, ormai aveva solo gli occhi, il corpo non c’era più e questi occhi avevano delle conoscenze che voleva trasmettermi. Io ho parlato con lui tutta la sera finché ha avuto la forza di parlare e il suo pensiero era questo: non abbiamo visto tutto, non abbiamo capito tutto, però abbiamo visto qualcosa che voi non sapete, quindi scrivete, forse lei non capirà, forse non capiranno quelli che verranno dopo di noi, ma forse un giorno la gente lo capirà”.