L’Italia ha un rapporto schizofrenico con la Chiesa, e un po’ la cosa si capisce. La sede di Pietro è a Roma da tempi lontanissimi, il papato è stato, attraverso i secoli, parte essenziale della storia del Belpaese e lo stesso equilibrio scaturito dal Risorgimento e poi aggiornato dalla Costituzione – non senza passare dai Patti Lateranensi firmati dal cardinal Pietro Gasparri e da Benito Mussolini – riassumibile nell’ideale “libera Chiesa in libero Stato”, è un’acquisizione tutto sommato abbastanza recente e mai del tutto risolta in una reciprocità che viene spesso alterata o messa in discussione.
Allo stesso modo il rapporto fra media e Vaticano, fa informazione e Chiesa, risulta spesso pesantemente influenzato da simile eredità, da un quadro tanto complesso e soprattutto da una relazione incerta e interessata fra palazzi del potere e palazzi vaticani, fra le famose due sponde del Tevere dove, più della collaborazione e dell’autonomia fra la sfera religiosa e quella civile, viene valorizzato un modello unico di consociativismo culturale e politico che tanto fa urlare gli anticlericali e tanto deprime e umilia il cattolicesimo ispirato dal Concilio Vaticano II segnato dal principio dell’autonomia del credente rispetto alla sua Chiesa nella vita politica e nel proprio impegno pubblico e civile.
Ma appunto nel ventennio che ci lasciamo alle spalle il ‘trait d’union’ fra politica e Chiesa, o ancor meglio fra maggioranze parlamentari e vescovi, fra governo e alte gerarchie ecclesiastiche e vaticane, è risultato essere elemento centrale dell’egemonia politica e culturale della destra italiana. Il volto del cardinale Camillo Ruini ha incarnato al meglio un patto di potere tale da determinare assetti ed equilibri anche nel centrosinistra, e poi i Quagliariello, gli Alfano, i Sacconi, le Roccelle i Gasparri – e cioè ex radicali, socialisti, fascisti e democristiani convertiti al verbo dell’integralismo quale nuova identità dell’occidente conservatore, hanno giocato di sponda stringendo un accordo fondato su scambi legislativi principalmente in materia etica e bioetica, ma anche in campo educativo e soprattutto evitando in tutti i modi che in Italia venisse approvato una legge sulla libertà religiosa, tale cioè da ammettere una trasformazione profonda dei caratteri fondanti del Paese, divenuto ormai nei decenni trascorsi dal dopoguerra, laico e multireligioso oltre che cattolico. E quando si pensa alla minorità culturale reazionaria tipica di una parte non piccola dell’Italia nel misurarsi col fenomeno migratorio, si pensi anche a questo.
Nel frattempo però è accaduto qualcosa: la Chiesa con una di quelle svolte che caratterizzano il suo durare nel tempo, la sua lungimiranza, ha scelto di cambiare sé stessa, rovesciando tutto o quasi. Una rivoluzione dall’alto che cerca ora sostegno nella base, per evitare appunto di finire risucchiata e infine perire nel modello ruinino le cui appendici e alleanze si prolungavano negli Stati Uniti e nell’Europa dell’est. E se la Chiesa cambia, i media italiani lo fanno un po’ meno. Così, per esempio, non ci si accorge che monsignor Nunzio Galantino nel corso dell’intervista con Lucia Annunziata in un inciso non casuale, ammette senza problemi che la Chiesa è minoranza in Italia (concetto fino ad oggi sempre negato) e anche il cambiamento di tono sulle unioni civili – il passaggio dagli anatemi alla richiesta di politiche “per” la famiglia – non trova ascolto, non viene colta; ma certo la Cei bifronte di Bagnasco (ancién regime), e Galantino (che prova a levare le incrostazioni del passato), fa fatica a staccarsi da questi suoi decenni retrivi e incerti, da un potere e da un mondo decadente sì, ma rassicurante e colmo di privilegi.
Tuttavia è sul sinodo dei vescovi sulla famiglia in corso in Vaticano che la sfida mediatica sembra ancora incapace – anche per scelta, per mancata volontà – di cogliere la rivoluzione in atto. Il Papa chiede ai vescovi, ma l’appello è a tutto il popolo di Dio, ad ogni singola parrocchia, di imparare a discutere di ogni problema anche quelli tradizionalmente più difficili per la Chiesa – l’omosessualità, le coppie di fatto, le unioni civili, appunto – e di dialogare, senza sentenze preventive, senza ‘Istruzioni’ della Congregazione per la dottrina della fede – e qui il salto è enorme – con i mutamenti sociali profondo che attraversano il nostro mondo, con un concetto di famiglia non solo in crisi ma forse e soprattutto in trasformazione verso una sua reinterpretazione più larga, che – come è stato detto al sinodo e qui ancora non si coglie la novità – non è un affare solo cattolico ma riguarda tutti, e allora tutti dobbiamo discuterne.
La conseguenza di questa impostazione aperta, ‘sinodale’, avanzata da papa Francesco, è importante per la Chiesa e ha rilevanti ricadute in una società dove la partecipazione attiva e collettiva ai processi decisionali si è andata via via riducendo. Si tratta della riapertura a un percorso di dibattito ampio e comune, ispirato in questo caso dal Vangelo, finalizzato a trovare delle soluzioni partendo da posizioni diverse a problemi etici e morali, a valorizzare quanto c’è di condiviso in punti di vista anche differenti. L’obiettivo non è però la mediazione al ribasso purché sia, quanto la sintesi che ‘apprende’ dalle varie sensibilità presenti. In termini ecclesiali è la strada che porta all’incontro con l ‘altro sia fra chiese particolari portatrici di storie differenti – dall’Europa all’Africa – , sia con il diverso, il lontano, il non credente o il seguace di una altra fede mosso certo dal medesimo afflato.
Su un piano che ci riguarda più da vicino è la fine della Chiesa autoritaria, guidata come un partito politico conformista – quasi sempre, ma non solo, di destra o conservatore – chiusa al dialogo con il campo ampio delle trasformazioni sociali e antropologiche, con la realtà di società multiculturali e multireligiose, con il progredire dei diritti civili; non tutti, questi ultimi, perfetti o indiscutibili, eppure segno anch’essi dell’affermarsi di una nuoca cultura dell’umano non liquidabile come “individualismo”, e che alla lunga sarà tra le più significative di quest’epoca.
Lo scandalismo mediatico di queste settimane sinodali, allora, il puntare sempre sulle polemiche del passato, sul conosciuto, sul rassicurante ‘già detto’ giornalistico, sono il segno di due tendenze che animano spesso alcuni dei maggior media del Paese. Da una parte c’è un tentativo di contrastare il progetto riformatore di Francesco per cristallizzare una realtà cadente in grado però di garantire ancora qualche rendita; dall’altro la fine della contrapposizione laicisti-clericali, costringe a ripensare attivamente il mondo nel quale viviamo, a confrontarci con fatti nuovi, con i mondi lontani – anche geograficamente – portati da Francesco nel cuore di questa nostra capitale che soffre, come tutto il Paese, di un ripiegamento provinciale su sé stessa; è la paura di aprire le finestre e fare entrare aria fresca anche esercitando di nuovo un pensiero critico.
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