“Rivendico il diritto alla cazzata”, a 25 anni dalla sua morte Ugo Tognazzi resta inarrivabile nel recitare il senso della felicità, nel rifiuto delle verità assolute, nell’amore innato per la provocazione, per la trasgressione, per il cambiamento, per il rischio, per la meravigliosa strada d’ombra accanto a registi come Marco Ferreri in “Ape Regina” e nel meticcio di “Non toccare la donna bianca” o nelle atmosfere di Pupi Avati in “La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone”, che solo il talento visionario di un attore puro, umile e intelligente poteva intraprendere e illuminare.
Un attore capace di donarsi a chi come lui nutriva l’esigenza dell’ironia e dell’innocenza, alchimie di assoluta leggerezza e irriverenza quelle con Gassman in “La marcia su Roma” o “In nome del popolo italiano” di Dino Risi e quelle con Raimondo Vianello con cui in “Uno, due, tre” inscena la parodia della vera caduta del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi nel palco d’onore della Scala, accanto a De Gaulle in visita di stato in Italia, entrambi licenziati da una Rai censore della sublime sconvenienza che tanto è necessaria per vivere in armonia con l’orrore del mondo.
Ugo Tognazzi nato a Cremona il 23 marzo 1922, è il sorriso di una gioia incontrollata, assoluta, generosa, di un attore di immensa emozione che rifiuta il ruolo dell’intellettuale e respira l’aria di un cinema senza alambicchi, sovrastrutture o finzioni vero nel suo far ridere o far piangere, a tu per tu con l’emozione che libera l’uomo, la sua mente, il suo sentire, come nel ruolo del fascista Primo Arcovazzi ne “Il federale” di Luciano Salce o in “Vogliamo i colonnelli” e nei panni dell’indimenticabile conte Raffaello Mascetti, in “Amici miei” di Monicelli.
Essere non cercare d’apparire, interpretare con indecente nudità i limiti, le paure, i sogni, le ambizioni e le debolezze grottesche di ognuno di noi così nel film “Il vizietto” di Edouard Molinaro e “La grande bouffe” ancora una volta di Marco Ferreri, il regista che forse più di ogni altro ha saputo cogliere l’incanto del grande attore, la libertà più assoluta nei confronti di se stesso, la coscienza del godimento dell’anima.
La missione di far vivere su pellicola un’infinità umanità, vincente, ambiziosa, indecente, malinconica, persa, sconfitta o derisa: “lo so che sono ridicolo, l’ho scoperto quando avevo cinque anni, però ho il mio stile”.
Ugo Tognazzi nel ruolo di Primo Spaggiaro in “La tragedia di un uomo ridicolo” di Bernardo Bertolucci, Palma d’oro a Cannas, nostalgia di assoluta bellezza quella per un attore impossibile da dimenticare.
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