Dal Brancaccio di Roma è iniziata il tour italiano di “Cabaret”, diretto da Saverio Marconi per la Compagnia della Rancia- Ottima prova interpretativa di Giampiero Ingrassia
Lo spettacolo, che girerà l’Italia in lungo e in largo, e che si annuncia ‘il musical della stagione’, sia per qualità, sia per qualità dei profusi mezzi espressivi, segue, nella sua sostanza, le vicende che già irroravano il romanzo di Christopher Isherwood “Addio a Berlino” (1939), integrato ed intersecato da situazioni, snodi narrativi desunti dal precedente “Sally Bowles” (1037), che il giovane scrittore inglese, intimo amico e sodale in arte del poeta Auden, scrisse soggiornando a Berlino e iniziando a percepire quel clima di dissoluzione, disincanto, frenesia cupa e coatta che preludevano, per patologia sociale (lo scrisse invano Wilhelm Reich), l’avvento del nazismo. Del quale l’opera di Isherwood, al pari della stagione espressionista (in cinema e arti visive) è considerata, a buona ragione, rabdomante sensore. Attraverso le tormentate vicende amorose di un giovane scrittore, Clift, incerto (ed oscillante) nella propria identità sessual-sentimentale- e di Sally, intraprendente vedette (in cerca di riscatto) del Kit Kat Clu , falso paradiso del ‘burlesco en travesti’, della provocazione finto-giocosa (che fu del nostro avanspettacolo), di quel ‘ridere in ansietà’ (tutto un misto di ansiolitici e ‘antibuggerotici’) evocato, anni fa, da Gigi Proietti, divagando dalla sponda romana che appartenne ad Ettore Petrolini
Berlino anni trenta, dunque: notturna, peccaminosa, ma già immersa nella tossicità di un liquido fatto di molestie sociali, perdita dei diritti civili, misoginia, insorgenze xenofobe che condussero il popolo tedesco e l’intera Europa al più immane olocausto della sua storia conosciuta – al seguito di un pifferaio\dittatore, di cui Thomas Mann aveva già intuito gravità e capacità narcotizzanti nel piccolo capolavoro di “Mario e il mago”, scritto negli stessi anni di “Morte a Venezia”.
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Prescindendo (volutamente) dalla (mirabile) memoria iconografica del celebre film di Bob Fosse (1972)- padroneggiato da Liza Minelli, Michel York e Joel Grey-il canone estetico dello spettacolo diretto dallo ‘specialista’ Saverio Marconi (che inizia il suo iter dal Brancaccio di Roma) è quello di farsi metafora di un letale macigno ‘in sembianze edoniste’: punto di congiunzione dell’originaria pièce “I am a Camera” di Van Drusten e della sua prima trasposizione in musical curata da John Kander, coreografata nell’edizione di Brodway (inizio anni sessanta) dallo stesso Bob Fosse- pronubo di un trionfo cinematografico suggellato da cinque premi Oscar. Allestimento che adesso sembra estremizzare la quella tensione di esagitata, frastornata esaltazione ‘del vivere comunque e ovunque’ pervasiva della scrittura elegante, inquieta, circostanziata di Isherwood- non esente da astuzie melodrammatiche, ma complessivamente ispirata (specie nella trasposizione scenica) al quel certo mondo di Kurt Weil, capace di riflettere -nella ‘lascivia’ del pentagramma- le tensioni emozionali di una ennesima generazione perduta, allusiva – per ‘golosità di vita- di tante crudeltà e barbarie dei tempi moderni. E non più passati. Tra le mille varianti di quell’arte ‘degenerata’ (da ‘imbavagliare’) che Goebbles ed Hitler ebbero gioco facile ad attribuire (vi dicono nulla Gropius, la Bauhaus, Karl Kraus?) ad artisti, ricercatori, giornalisti non omologati e perseguitati.
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Sul filo mnemonico del tedesco Kabaret di Weimer, Marconi (specie attraverso la maschera da joker luciferino, eclettico, vitalistico del travolgente ‘entreneur’ magistralmente reso da Giampiero Ingrassia) mette in scena una sorta di inquietante mix tra glamour, coreografie adrenaliniche, canto ritmico con adeguati prolungamenti espressivi. Evidenziando (della duttilità degli interpreti) una inattesa recitazione spigolosa, caricata, sovrabbondante: intrisa di pantomime satiriche, costumi anatomicamente discinti, caricature del dolore e delle pene d’amore (sempre in perdita)- affluenti in un particolare sentimento di umorismo soffice, innocuo, sottopelle. Mediante piccole simbologie di scena che enucleano la cifra del grottesco come abisso del ridicolo, tra scorci di cinismo (le diverse gamme del ridere) e imbarazzanti sfumature di ‘instupidimento, imbecillità latenti’, che spingono il raziocinio, la linearità narrativa sino al deflagrare di un’isteria sinistra, collettiva, senza ritorno. In cui la magia del cromatismo, dell’ ingegneria delle luci va a sommergersi come in un luccicante caveau (o gran tendone) di evanescenti silhouette scenografiche. Per un divertissement d’alto livello (e impresariato) che dà pensare e fà ripensare a tutte stordenti voragini della Storia umana: ripetibili, nonostante la (nostra) tragica cognizione di causa.
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“Cabaret”
Testo di Joe Masteroff. Regia di Saverio Marconi- Basato sulla commedia di John Van Druten e sui racconti di Christopher Isherwood -Con Giampiero Ingrassia, Giulia Ottonello, Mauro Simone, Altea Russo. Michele Renzullo Valentina Gullace, Alessandro Di Giulio, Ilaria Suss, Nadia Scherani, Marta Belloni, Andrea Verzicco, Gianluca Pilla. – Musiche di John Kander Scenografia di Gabriele Moreschi Costumi di Carla Accoramboni Luci di Valerio Tiberi Coreografie di Giallian Bruce
– Roma Teatro Brancaccio -Pesaro Teatro Rossini – Milano/Assago Teatro della Luna dal 12 al 22 novembre