L’assegnazione del prestigioso premio Sakharov per i diritti umani dell’europarlamento al blogger saudita Raif Badawi, condannato a mille frustate e a dieci anni di carcere per oltraggio all’Islam, è una bella notizia ma soprattutto un messaggio forte per l’Arabia Saudita di cui mi auguro tenga conto, in particolar modo, l’Italia.
Nei giorni scorsi la Corte Suprema di Riyad ha confermato la condanna a morte nei confronti di Nimr Baqir al Nimr, figura di spicco del movimento di protesta contro il governo e zio di Ali, ventenne anch’egli destinato alla stessa sorte e per il quale si è animata una mobilitazione internazionale come avvenuto in precedenza per lo stesso Badawi.
Dopo la sentenza di Appello, confermata dall’Alta Corte saudita, il destino del leader dell’opposizione è dunque nelle mani del re Salman, a cui spetta convalidare la condanna oppure concedere la grazia.
Sulla decisione peserà certamente la consapevolezza che questa esecuzione possa provocare la reazione dei sostenitori dello sceicco nelle aree sciite del mondo islamico.
Le tensioni tra le autorità saudite e la minoranza musulmana del paese si sono amplificate da quando nel 2011 sono iniziate, ispirate in parte dalle proteste popolari in Medio Oriente e Africa del Nord, manifestazioni nel Regno per chiedere riforme e diritti.
Ali Mohammed al Nimr aveva 17 anni quando nel febbraio 2012 venne arrestato per aver preso parte a un corteo nella provincia di Qatif. Due anni dopo, il 27 maggio del 2015, è stato condannato a morte per decapitazione, per poi essere crocifisso ed esposto fino a quando il suo corpo non sarà putrefatto.
Secondo Amnesty International la sentenza non sarebbe stata così dura se Ali non fosse stato nipote di uno dei più conosciuti e determinati oppositori sciiti al regime saudita.
Insieme a lui sono stati giudicati altri due giovani, minorenni all’epoca dei fatti contestati. Dawood Hussein al-Marhoon e Abdullah Hasan al-Zaher.
Anche per loro la Corte penale speciale di Riyad ha emesso la pena capitale per reati che vanno dalla partecipazione a proteste antigovernative, alla rapina a mano armata e all’uccisione di agenti di polizia “avendo fabbricato e usato bombe molotov per attaccarli”.
Tutti loro hanno raccontato di essere stati torturati e costretti a confessare, dopo che gli era stato negato l’accesso a un avvocato durante gli interrogatori.
La vicenda ha scosso anche l’opinione pubblica italiana quando Tahar Ben Jelloun, scrittore e saggista marocchino a cui il segretario dell’Onu ha conferito il Global Tolerance Award, dalla prima pagina di Repubblica ha lanciato un appello a salvare Ali.
Tahar ci ha raccontato che proprio nelle ore in cui veniva emessa la sentenza per al-Nimr, Faisal Bin Hassan Trad, ambasciatore saudita, veniva eletto a Ginevra presidente del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Come evidenziato dall’intellettuale nordafricano la decisione di questa ‘istituzione sempre più inefficace’ è apparsa quasi una forma di macabro umorismo.
L’Arabia Saudita, da sempre governata dalla stessa famiglia, emette di continuo condanne a morte e detiene il record mondiale di esecuzioni capitali. Solo quest’anno ci sono state già 133 esecuzioni.
‘Che cosa fare in questi casi? Lasciar correre, stare zitti, tenere un profilo basso per non perdere qualche contratto? Starsene dietro alla propria vigliaccheria e distogliere lo sguardo? Ma è inammissibile. Per giudicare i governanti che hanno commesso crimini contro l’umanità c’è la Corte penale internazionale: perché non viene denunciato chi amministra la giustizia in quel paese?’ ha scritto Jelloun cogliendo il cuore del problema dell’inerzia della diplomazia internazionale.
Finora l’unico governo che ha preso ufficialmente posizione è quello francese. Il presidente François Hollande si è rivolto senza timori direttamente al regno saudita chiedendo di rinunciare all’esecuzione nel nome del principio essenziale che la pena di morte va abolita.
Prima di lui era stato il premier Manuel Valls a schierarsi contro la condanna, sostenendo la campagna promossa da numerose organizzazioni non governative, Amnesty in testa, e che in Francia ha avuto un’eco anche maggiore che nei Paesi anglosassoni.
Negli ultimi giorni anche nel Regno Unito si è animato un dibattito che ha spinto il primo ministro Cameron a manifestare qualche segnale di irritazione nei confronti di Riyad.
Il nuovo leader labour, Jeremy Corbyn, aveva chiesto al premier britannico di “intervenire con urgenza” suggerendo di adottare contromisure per esercitare pressione sulla monarchia wahabita a cominciare dalla ‘cancellazione di un contratto di consulenza per le prigioni saudite’. E difatti Londra ha invertito la marcia nei rapporti con l’Arabia e ha sospeso il progetto di formazione al sistema penale del Paese, adducendo riserve sul mancato rispetto dei diritti umani.
In Italia a parte l’impegno di alcuni esponenti del mondo dell’informazione e della società civile, in prima fila Aki, Amnesty, Unità e Articolo 21 che hanno rilanciato la mobilitazione internazionale per fermare la mano del boia, non si sono alzate molte voci ‘istituzionali’. Ed è per questo che ancora una volta vale la pena di sollecitare una reazione da parte del governo per dire no all’atroce destino del giovane saudita, che deve e può essere cambiato. Ma solo con il coinvolgimento di tutti.