Diciamo le cose come stanno: Obama è un galantuomo, Putin è Putin e non ha bisogno di aggettivi o di ulteriori classificazioni; fatto sta che, in politica estera, il primo si è dimostrato all’altezza solo nei confronti di Cuba (peraltro grazie alla decisiva mediazione di papa Francesco) e nell’ambito della trattativa diplomatica con l’Iran (ovviamente importantissima, trattandosi di armi nucleari: una questione per la quale Obama ha dovuto affrontare uno scontro durissimo sia con gli avversari repubblicani sia con lo storico alleato israeliano) mentre il secondo si è rivelato abilissimo soprattutto nella battaglia globale, e non meno importante, contro il Daesh in Siria, rinsaldando la storica alleanza con Assad e portando sulle sue posizioni tutti coloro che, nel mondo, si rendono conto dell’insostenibilità della posizione fin qui sostenuta dal Presidente americano, ossia un’equidistanza assoluta sia dal macellaio di Damasco sia dai fautori della minaccia jihadista. C’è poco da fare: Assad è un essere pericoloso e spregevole, un massacratore del suo popolo, un oppressore tirannico e sanguinario il cui allontamento dal potere sarebbe necessario per ragioni etiche prima ancora che politiche; tuttavia, è altrettanto vero che il califfo al-Baghdadi è un essere di gran lunga peggiore, con un esercito di mercenari al suo servizio che ha ormai conquistato l’Iraq e gran parte della Siria, che sta avanzando in Nord-Africa, che si sta saldando con Boko Haram in Nigeria, che sta penetrando all’interno del caos libico e, dunque, è giunto a poche miglia dalle nostre coste, conquistandosi un affaccio sul Mediterraneo che deve essere assolutamente scongiurato, onde evitare di trovarci davvero a dover fronteggiare la minaccia dell’estremismo islamico in casa nostra.
Da questa vicenda deriva, pertanto, una lezione di cinico realismo politico dalla quale, purtroppo, specie in campo internazionale, non si può prescindere: non bisogna mai far prevalere le proprie aspirazioni e le proprie utopie sulla cruda evidenza dei fatti. E la cruda evidenza in Siria è che i ribelli moderati non hanno la forza necessaria per contrastare e sbaragliare un nemico la cui avanzata sembra essere, al momento, inarrestabile; pertanto, oltre a non esserci nulla di umanitario nelle scelte iniziali di Obama, c’è stato anche un grave fondo di miopia che ha condannato a patire sofferenze atroci sia i combattenti sia milioni di civili, trucidati dai seguaci del fanatismo religioso, morti sotto le bombe del regime o costretti ad affrontare drammatici viaggi della disperazione come quello che e costato la vita al piccolo Aylan.
Per distruggere l’ISIS occorre un esercito ben equipaggiato e armato di tutto punto: un esercito regolare, addestrato a dovere, esperto del territorio e in grado di colpire i miliziani nei loro punti nevralgici, ovviamente col sostegno di una coalizione internazionale determinata a radere al suolo una minaccia che non può e non deve essere ulteriormente sottovalutata.
Sono scelte difficili, ce ne rendiamo conto, così come comprendiamo perfettamente le ritrosie di un Obama costretto a fare i conti con un’opinione pubblica ancora scottata dalle barbare guerre di Bush in Afghanistan e in Iraq, costate un mucchio di vite innocenti e rivelatesi inutili, dannose e foriere di uragani della storia come, per l’appunto, gli eredi, di gran lunga più agguerriti e feroci, di al-Qaida. Ciò detto, non si può più ignorare l’insostenibilità della convivenza con un nemico che sgozza, arde vivi, crocifigge e getta dai palazzi oppositori, infedeli, omosessuali, giornalisti e qualunque povero cristo gli capiti a tiro: al cospetto di simili carnefici, nessuna forma di dialogo è più minimamente possibile né auspicabile.
E per schiacciare un mostro del genere, ci piaccia o meno, è indispensabile la collaborazione momentanea con il governo di Damasco, salvo studiare sin d’ora una soluzione adeguata per il dopo, basata sull’esilio di Assad e dei gerarchi al seguito e su un percorso democratico autonomo e civile per i siriani che parta da presupposti esattamente antitetici a quelli ipocriti che caratterizzarono la presunta “esportazione della democrazia” di marca bushiana, le cui conseguenze sono tuttora sotto i nostri occhi e alla base di quest’imprescindibile accordo con un boia del quale vorremmo tutti fare volentieri a meno.
Quanto all’Orso russo, infine, l’intero mondo occidentale è tornato da anni a dovercisi misurare: cerchiamo di trarre vantaggio da quest’equilibrio ritrovato e smettiamola di dar vita, incentivare e sostenere delle pericolosissime guerre per procura, il cui unico scopo è quello di indebolire un avversario la cui forza e la cui solidità militare si rivelano essenziali ogni qualvolta c’è da fronteggiare i veri nemici dell’umanità e del nostro modello di convivenza.