Nel suo ufficio al secondo piano del palazzo di giustizia di Palermo il sostituto procuratore Nino Di Matteo spiega che mafia e corruzione rappresentano “due facce della stessa medaglia, due aspetti distinti di un unico sistema criminale integrato, in cui la violenza della mafia e i soldi della corruzione si integrano a vicenda per il raggiungimento di scopi criminali”. Nell’analisi del magistrato siciliano, condannato a morte dal capo di Cosa Nostra, c’è spazio anche per il “protagonismo” dei Servizi segreti che, per ritenute “ragioni di Stato”, accettano il dialogo con altre forze criminali. Mafia, politica e istituzioni? “Per quanto riguarda il calo di tensione e di attenzione nell’approccio a questo tipo di inchieste, la politica, e i governi che si sono succeduti negli ultimi anni, hanno avuto un peso importante, se non determinante”. Di Matteo è consapevole che la magistratura da sola può arrivare fino a un certo punto se in questa ricerca della verità non viene aiutata, sostenuta e stimolata dalla politica. Ma la realtà dei fatti e tutt’altra. “Noi non abbiamo avuto né l’aiuto, né il sostegno e né lo stimolo a cercare la verità; piuttosto in certi momenti riteniamo di avere avuto degli ostacoli che potevano essere evitati”. Ostacoli che si traducono con l’isolamento istituzionale, la diffidenza, il sospetto, la presa di distanza da parte di alcuni settori della stessa magistratura. Si giunge così all’amara conclusione che “la lotta alla mafia non è più prioritaria, nemmeno all’interno della magistratura”. Con un’ultima speranza che questa tendenza si possa invertire.
Recentemente lei ha dichiarato che “per vincere la mafia infiltrata nell’amministrazione pubblica e la corruzione l’Italia deve affrontare un’altra grande guerra di liberazione”. Ma la volontà politico-istituzionale a voler affrontare questa nuova “guerra di liberazione” è pura utopia?
Credo che finora gli eventi dimostrino come questa volontà non sia stata effettiva, generale, né tanto meno prioritaria. Si è andati avanti seguendo una logica emergenziale, cercando di reagire agli avvenimenti, agli scandali e alle risultanze di indagini giudiziarie sempre più numerose. Ritengo quindi che sia mancata una visione d’insieme costante e intelligente, capace di concentrare gli sforzi, anche con un obiettivo più alto e più a lungo termine, in due direzioni: la recisione dei rapporti esterni della mafia con la politica, l’economia e le istituzioni, e la repressione più efficace del fenomeno della corruzione. Che sta diventando sempre più complementare a quello mafioso, tanto che mafia e corruzione oggi spesso rappresentano due facce della stessa medaglia, due aspetti distinti di un unico sistema criminale integrato, in cui la violenza della mafia e i soldi della corruzione si integrano a vicenda per il raggiungimento di scopi criminali.
Anche il pm calabrese Giuseppe Lombardo ha denunciato la sottovalutazione della circostanza che mafia e corruzione sono componenti indispensabili di uno stesso sistema criminale integrato e circolare.
Il collega Lombardo (che ho imparato nel tempo a stimare enormemente, attraverso un continuo scambio di informazioni) giunge alle stesse conclusioni perché evidentemente è un altro magistrato che, nella sua carriera, nel suo impegno di sostituto procuratore a Reggio Calabria, non si è limitato alla volontà di colpire il fenomeno militare della ‘Ndrangheta, ma ha alzato il suo obiettivo cercando di individuare e colpire i rapporti esterni di quella mafia. Ogni qualvolta si sposta l’interesse investigativo anche sui rapporti esterni di Cosa Nostra, ci si imbatte ugualmente in quei fenomeni corruttivi che consideriamo, appunto, aspetti diversi della stessa situazione criminale.
Qualche tempo fa il professor Rodotà ha ricordato che quando venne scoperta la P2 si parlava di “doppio Stato” per poi aggiungere che in Italia c’è “la prova provata” che “i Servizi hanno fiancheggiato fenomeni eversivi e che quelli erano un pezzo del doppio Stato”. Stiamo quindi assistendo ad un’evoluzione di questo “doppio Stato” che diventa sistema criminale integrato?
Penso che dobbiamo distinguere degli aspetti diversi. Come accennavo prima, da una parte c’è un sistema criminale integrato che è tale perché riguarda sempre più la connessione tra fenomeni tipici della violenza mafiosa e fenomeni corruttivi. La mafia, più spesso rispetto al passato, si serve della corruzione per raggiungere i propri scopi. I corrotti all’interno delle istituzioni pubbliche, ma anche dell’imprenditoria privata, per raggiungere i loro obiettivi non esitano a rivolgersi alla mafia utilizzandola quasi come una agenzia di servizi. Il dato evidenziato dal professor Rodotà in merito ai rapporti che hanno caratterizzato molte fasi della nostra vita democratica è sempre di estrema attualità. Mi riferisco al protagonismo dei nostri Servizi che, rispetto al percorso istituzionale, ha deviato, volta per volta, per ragioni “politiche”, o per ritenute “ragioni di Stato” (ma come tali, proprio perché ritenute e non dichiarate, assolutamente non condivisibili), accettando il dialogo con altre forze criminali di tipo mafioso o di tipo camorristico.
Ritengo quindi che bisogna sempre tenere gli occhi aperti sull’attualità per capire se determinati fenomeni possano, anche semplicemente in parte, riprodursi. Di conseguenza penso che bisogna continuare a insistere nell’approfondimento degli episodi, anche risalenti nel tempo, di contiguità tra Servizi di sicurezza e organizzazioni criminali. Se si lasciano inesplorati determinati campi e determinati aspetti (sui quali anche certe sentenze definitive impongono invece di esplorare) si rischia di consegnare definitivamente alla mafia, e alle altre organizzazioni criminali, un potere di ricatto nei confronti dello Stato. Uno Stato che vuole, invece, liberarsi dal fardello costituito da questi rapporti ambigui e fuorilegge del passato non può che scavare ancora nella direzione dell’approfondimento e nella individuazione eventuale di responsabilità penali di singole persone.
Nel suo libro scritto assieme a Salvo Palazzolo dal titolo “Collusi” si legge, tra l’altro, che “l’impegno dello Stato per indagare a fondo sulle stragi è scemato nel tempo”. Quanto ha influito l’ingerenza politica in questo modus operandi?
Ho la sensazione, sempre più netta, che si è sempre più generalizzato il fastidio nei confronti di certi argomenti, di certe indagini e di certi magistrati che si ostinano a volere indagare sul passato. Credo quindi che l’aspetto politico sia stato determinante, se non altro perché è la stessa politica, attraverso i competenti Ministeri, a indirizzare l’attività delle forze di Polizia. In questi ultimi anni abbiamo palesemente assistito ad una richiesta rivolta alle forze di Polizia di concentrare maggiormente le loro indagini sulla repressione degli aspetti militari delle mafie, piuttosto che su quelli relativi a eventuali rapporti politico-istituzionali. Abbiamo anche assistito, soprattutto nell’ambito della politica, ad una sorta di strisciante delegittimazione di quegli apparati della Polizia giudiziaria, in particolare della Dia, che più degli altri in passato (soprattutto con la Procura della Repubblica di Palermo, e non solo), si erano dedicati alle inchieste sui rapporti esterni della mafia. Credo, purtroppo, che per quanto riguarda il calo di tensione e di attenzione nell’approccio a questo tipo di inchieste, la politica, e i governi che si sono succeduti negli ultimi anni, abbiano avuto un peso importante, se non determinante.
Poco prima di entrare in politica l’ex pm Antonio Ingroia fece una dichiarazione molto forte: “da un po’ percepivo che la mia azione di magistrato fosse giunta al limite del possibile. La stanza della verità sul ‘92 è scarsamente illuminata perché da parte della politica, del potere legislativo e di quello esecutivo, ci sono stati pochi aiuti e molti ostacoli alla magistratura. Sono in politica per questo”. Quanto è attuale la lettura di Ingroia sugli ostacoli posti alla magistratura da parte della politica, del potere legislativo e di quello esecutivo per arrivare alla verità?
Purtroppo credo che l’analisi di Antonio Ingroia non sia lontana dalla realtà e che conservi ancora, a distanza di più di due anni, una certa attualità. Anche se non ho condiviso la scelta di Ingroia di entrare in politica, ho compreso le sue ragioni. Che fondamentalmente erano connesse ad una sorta di consapevolezza: la magistratura da sola può arrivare fino a un certo punto se in questa azione di ricerca della verità non viene aiutata, sostenuta e stimolata dalla politica. Ma noi non abbiamo avuto né l’aiuto, né il sostegno e né lo stimolo a cercare la verità; piuttosto in certi momenti riteniamo di avere avuto degli ostacoli che potevano essere evitati.
Uno su tutti è indubbiamente il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale.
Credo che questa azione sia stata percepita come un ulteriore segno di sfiducia nei confronti della Procura di Palermo e dell’inchiesta sulla trattativa. E tutto ciò per un motivo molto concreto, poco evidenziato, ma che costituisce un dato oggettivo difficilmente smentibile. Basta riprendere altre inchieste, rispettivamente condotte dalla Procura di Milano (per la bancarotta della finanziaria svizzera Sasea), ai tempi in cui il Presidente della Repubblica era Oscar Luigi Scalfaro, e dalla Procura di Firenze (con l’indagine sugli appalti per la ricostruzione dell’Aquila), all’epoca in cui era Presidente Giorgio Napolitano. Quelle due procure avevano casualmente intercettato delle conversazioni di altri personaggi, sottoposti appunto a controllo telefonico, con i Presidenti della Repubblica. In quei casi, a differenza del nostro, quelle conversazioni furono trascritte dalla Polizia Giudiziaria, depositate agli atti, conosciute da tutte le parti processuali e finirono anche sui giornali. In quelle due occasioni il Quirinale non sollevò alcun conflitto di attribuzione, che invece ha ritenuto di sollevare solo nei confronti della Procura di Palermo, e solo in relazione al processo sulla trattativa. E questo (a differenza dei casi precedenti), nonostante noi non avessimo fatto trascrivere quelle intercettazioni e tanto meno le avessimo depositate. La Procura di Palermo si era comportata con professionalità tale da evitare qualsiasi fuga di notizie in merito al contenuto di quelle telefonate, per altro penalmente irrilevanti. Credo che, proprio nella differenza di reazione rispetto a casi assolutamente identici, gli osservatori più attenti abbiano colto una sorta di particolare ostracismo nei confronti della Procura di Palermo, o meglio dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia.
Ma perché fa così paura l’inchiesta sulla trattativa?
Non posso esprimere delle opinioni su un processo che fin dall’inizio, con Antonio Ingroia, ho istruito, e continuo a seguire nella fase dibattimentale. Il dato di fatto, che ritengo emerga dalla storia giudiziaria degli ultimi anni, è che si tratta del primo e unico processo in cui alla sbarra troviamo insieme: capi della mafia, esponenti già apicali delle forze di Polizia, dei Servizi di sicurezza e importanti esponenti politici. Tutto questo rende particolarmente sensibile quel processo. La delicatezza dell’indagine e dello stesso procedimento penale aumenta quindi esponenzialmente in relazione all’intersecarsi temporale con le stragi del ‘92 e del ’93, con la probabilità che in un certo modo quegli stessi fatti (riassunti dal termine “trattativa Stato-mafia”), abbiano costituito quanto meno una concausa degli eccidi del ’92 e del ‘93.
Nella postfazione del libro “Collusi” viene riportato un passaggio di Giovanni Falcone tratto dal libro “Cose di cosa nostra”, Falcone parlava del “dialogo” Stato-mafia per dimostrare che “Cosa nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto un’organizzazione parallela”. La possiamo definire un’analisi acuta che anticipa di diversi anni le indagini sulla trattativa?
Giovanni Falcone era molti passi avanti rispetto alla comprensione del fenomeno mafioso, sia nei suoi aspetti ordinari che in quelli più alti, non c’è bisogno che lo dica io, lo dicono i fatti e la storia. E’ un dato oggettivo che a lui si deve la prima applicazione della figura del concorso esterno in associazione mafiosa. Falcone fu il primo a insistere (in particolare modo in occasione del fallito attentato nei suoi confronti all’Addaura) sul possibile protagonismo di “menti raffinatissime” estranee alla mafia. Fu il primo (così come è stato ricordato in un recente convegno di Antimafia Duemila, in occasione dell’anniversario della strage di Capaci) a parlare degli “ibridi connubi” di Cosa Nostra con pezzi dello Stato. E fu sempre il primo a evidenziare come il rapporto tra lo Stato e la mafia fosse stato in passato (e fosse anche a quel tempo) un rapporto in cui troppo spesso, e da troppe parti istituzionali, si instaurava una sorta di dialogo. Oggi Giovanni Falcone viene giustamente santificato e viene ricordata la sua eccezionale valenza e importanza nella lotta alla mafia siciliana e al crimine mondiale. Ma quando, però, i magistrati cercano con i fatti, con i processi e con le inchieste, di percorrere il solco già tracciato da Giovanni Falcone, paradossalmente quegli stessi magistrati vengono invece osteggiati, denigrati e qualche volta anche isolati.
Oltre a questa forma di “isolamento istituzionale”, parallelamente ci sono le minacce di morte da parte di Cosa Nostra e non solo. Lo stesso pm Lombardo ha analizzato a fondo le recenti dichiarazioni del neo pentito Vito Galatolo giungendo alla conclusione che quando Galatolo ci parla di “entità esterne” coinvolte nella pianificazione dell’attentato a Nino Di Matteo ci viene a dire che “non ci si deve limitare a pensare che la decisione possa essere di Matteo Messina Denaro o della ristretta cerchia di persone che lo circonda. Il sistema che decide è ben più ampio e beneficia solo dell’azione materiale che pongono in essere le mafie per ottenere vantaggi che vanno a soddisfare altri interessi, di più alto rango”. E’ effettivamente così?
Sono l’ultimo a potere parlare dall’indagine che scaturisce dalle rivelazioni di Galatolo sul progetto di attentato nei miei confronti, però, anche per questo aspetto, l’analisi del collega Lombardo mi sembra estremamente lucida e, proprio per questo, preoccupante. La preoccupazione più forte – che tutti dovremmo percepire – non è soltanto quella di un possibile e autonomo colpo di coda delle organizzazione mafiose, bensì quella di una saldatura fra interessi diversi. Che, così come è accaduto anche in passato, possa a qualsiasi titolo rafforzare, o addirittura creare in Cosa Nostra, o nelle altre mafie, il convincimento che un determinato delitto, un determinato attentato, sia gradito ad ambienti di potere. Ritengo che la particolarità della dichiarazione di Galatolo, al di là degli aspetti più facilmente di impatto come l’acquisto e l’arrivo dell’esplosivo a Palermo, o i pedinamenti nei miei confronti, sia soprattutto nella parte in cui ci si riferisce ad una decisione di Cosa Nostra, di Matteo Messina Denaro in particolare, in qualche modo suggerita da “altri”. Se questo fosse vero – ovviamente io mi auguro che non lo sia – il contesto sarebbe oggettivamente molto più grave.
Mettendo insieme i pezzi di questo mosaico sembra di assistere ad una sorta di parallelismo con il ’92, soprattutto con i misteri che ruotano attorno alla strage di via D’Amelio. Uno di questi riguardava l’intercettazione del ’93 tra il pentito Santino Di Matteo e sua moglie. I due parlavano di qualcuno infiltrato per conto della mafia, possibilmente coinvolto nella strage di via D’Amelio. Si trattava di una sorta di conferma, di fatto abortita sul nascere, in merito alle ingerenze “esterne” a Cosa Nostra nella realizzazione dell’eccidio del 19 luglio ’92?
Effettivamente quell’intercettazione, relativa al primo colloquio tra l’allora neo collaboratore Santino Di Matteo e la moglie dopo la notizia del rapimento del figlio, costituisce ancora un mistero da approfondire. Le spiegazioni minimaliste di quelle parole che hanno fornito la signora Castellese e Santino Di Matteo non mi hanno mai del tutto convinto.
Sembra quasi un preludio di quello che poi è venuto fuori con le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza in merito a quel personaggio, non di Cosa Nostra, che si trovava in quello stesso garage nel momento in cui si stava imbottendo di esplosivo la Fiat 126 destinata alla strage del giudice Borsellino.
Per molti delitti eccellenti, per molte stragi e per la strage di via D’Amelio in particolare, ci sono una serie di elementi che fanno ritenere doveroso un ulteriore approfondimento, a livello investigativo, in quanto quegli stessi elementi convergono verso una possibile compartecipazione nella fase organizzativa ed esecutiva del delitto. Non è vero, e non è mai stato corretto affermare (come tanti hanno fatto con una certa superficialità) che sulle stragi del ’92, e propriamente sulla strage di via D’Amelio, non sappiamo nulla. Nel tempo abbiamo faticosamente raggiunto diverse certezze, anche giudiziarie, sulla partecipazione di molti uomini d’onore. Abbiamo, però, il dovere di approfondire altri aspetti che sono emersi dai tanti processi celebrati, che riportano ad una compartecipazione da parte di soggetti diversi dagli uomini d’onore. Nel libro “Collusi” approfondiamo appositamente alcuni particolari su questi temi. Ma soprattutto denunciamo il pericolo che da più parti si vogliano considerare quei fatti ormai definitivamente chiusi, come se appartenessero ad un passato lontano sul quale non conviene a nessuno continuare a indagare.
Al processo quater per la strage di via D’Amelio l’ex pentito Vincenzo Scarantino ha puntato il dito sull’ex questore Arnaldo La Barbera e sugli uomini del suo pool indicandoli come coloro che lo hanno indottrinato contribuendo così al depistaggio delle prime indagini. Resta il fatto che il coinvolgimento nella fase esecutiva della strage di via D’Amelio del mandamento di Brancaccio, dei fratelli Graviano, in particolar modo degli uomini di più stretta fiducia dei Graviano (ad esempio: Lorenzo Tinnirello, Francesco Tagliavia e Cristoforo Cannella) era stato già consacrato nei processi “Borsellino ter” e, in parte, anche nel “Borsellino bis”. Paradossalmente alcuni di questi uomini, compresi i vari Tagliavia, Tinnirello e gli stessi fratelli Graviano, erano stati chiamati in causa anche dall’ex picciotto della Guadagna. Che spiegazione si è dato a questa combinazione di falso e vero racchiusa nelle dichiarazioni di Scarantino?
Ho letto sui giornali che alcuni difensori di Parte Civile mi hanno indicato come loro testimone al “Borsellino quater”. La sede di un’intervista, quindi, non mi sembra quella più idonea per riferire tutto ciò che penso di questa vicenda. Voglio solo ricordare alcuni fatti, proprio perché la ricostruzione in questi anni è stata forse un po’ troppo semplicistica. È stato detto che Vincenzo Scarantino avesse mentito, in quanto “istruito” da altri, per salvaguardare la famiglia Graviano, ma questo non è vero. Lo stesso Scarantino ha indicato per primo come protagonisti a vario titolo (anche nella fase esecutiva del delitto) alcuni uomini d’onore della famiglia dei Graviano. Filippo e Giuseppe Graviano sono stati infatti condannati anche sulla base delle dichiarazioni di Scarantino. È stato detto che il depistaggio di Vincenzo Scarantino aveva avuto come scopo quello di allontanare eventuali sospetti su appartenenti ai Servizi segreti, dobbiamo invece fare i conti con una realtà ben diversa. Scarantino indicò tra i protagonisti della fase preparatoria della strage i fratelli Scotto, uno dei quali, Gaetano (oramai è emerso in tanti altri processi e in tante altre inchieste), ha rappresentato per anni uno degli snodi di collegamento più importi tra le famiglie mafiose palermitane (per quella dei Madonia), e ambienti dei Servizi deviati. Le intercettazioni in carcere, ad Opera, tra Totò Riina e Alberto Lo Russo sembrano per altro evidenziare (da parte di Riina) che la persona che aveva intercettato abusivamente il telefono della madre di Paolo Borsellino e cioè Pietro Scotto, effettivamente avesse agito in quel modo, e che quell’intercettazione fosse stata realmente decisiva per uccidere Paolo Borsellino. Tutto questo era già stato consacrato nei processi per la strage del 19 luglio ‘92 che si erano conclusi alla fine degli anni ’90. Oggi, invece, un processo per quell’eccidio, rimesso in discussione dall’istanza di revisione, riguarda anche Gaetano Scotto. Per tanto tempo si è spacciata la verità che per via D’Amelio si dovesse ricominciare daccapo e che il lavoro di anni svolto da decine di magistrati della requirente e della giudicante fosse inutile e dannoso. Alla luce di quanto esposto non credo proprio che sia così.
C’è una frase emblematica intercettata a Riina mentre parla con il suo compagno di ora d’aria Lorusso. Il boss sussurra: “Totò Cancemi dice che dobbiamo inventare che la morte di Falcone…. che ci devi inventare, gli ho detto? Lui ha detto … (inc.) gli ho detto: se lo sanno la cosa è finita”. Quali sono i possibili scenari racchiusi in questa dichiarazione?
Questa intercettazione riapre uno scenario già vissuto e considerato: la possibilità che non solo Totò Riina, ma anche l’ex boss Salvatore Cancemi (deceduto nel 2011, ndr) sapesse di più di quello che ha riferito negli anni ’90 all’autorità giudiziaria. D’altra parte, in base ad alcune considerazioni, avevamo già intuito che Cancemi potesse essere a conoscenza di qualcosa di particolarmente delicato, che avesse cioè dei segreti difficilmente confessabili anche da collaboratore di giustizia. Innanzitutto dal fatto che per alcuni anni, dall’inizio della sua collaborazione (inizialmente gestita dal Ros dei Carabinieri), avesse negato qualsiasi sua conoscenza sulla strage di via D’Amelio. Come è noto Salvatore Cancemi iniziò a collaborare nel ’93 e solo nel ‘96 inoltrato confessò di avere partecipato ad alcune fasi preparatorie della strage del 19 luglio ‘92. Fin dall’inizio della sua collaborazione Cancemi aveva comunque detto di avere parlato con altri uomini d’onore di rango, come Raffaele Ganci, del peso decisivo che aveva avuto la volontà di “soggetti esterni” a Cosa Nostra nel rafforzare il proposito stragista di Riina. Stiamo parlando di quelle “persone importanti” (così le aveva definite il collaboratore) che, a detta dello stesso Cancemi, avevano convinto Totò Riina che quello era il modo giusto di agire. Per alcuni anni Cancemi non fece i nomi di quelle “persone importanti”. Poi, proprio nel “Borsellino ter”, il processo che ho seguito fin dall’inizio a Caltanissetta, specificò essere – almeno dai riferimenti che gli avrebbe fatto Totò Riina in una riunione tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio – Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. L’intercettazione di Riina (seppur così enigmatica) non fa altro che confermare il convincimento che anche Cancemi sapesse di più su quelle stragi: qualcosa di talmente forte, di talmente delicato, che non potesse essere nemmeno comunicato agli altri uomini d’onore che pure avevano partecipato alle stragi.
Proprio Cancemi aveva riferito che Riina “era stato portato con la manina a fare le stragi” e che lo stesso boss di Corleone gli aveva confidato che Cosa Nostra sarebbe stata solo un’accozzaglia di criminali se non avesse avuto questi collegamenti forti con pezzi delle istituzioni.
La collaborazione di Cancemi è stata preziosa, una delle prime provenienti da un uomo d’onore che aveva fatto parte, proprio nel momento delle stragi, della “commissione provinciale” di Cosa Nostra. Purtroppo, però, è stata una collaborazione a metà. In alcuni momenti ho ritenuto che fosse stata “con il freno a mano tirato”, soprattutto per quanto riguardava le sue conoscenze su mandanti esterni a Cosa Nostra nelle stragi del ’92.
E’ un dato di fatto che esiste una sorta di isolamento e delegittimazione che accomuna i collaboratori di giustizia e i magistrati quando viene alzato il livello dei temi da affrontare. Qualche settimana fa lei ha detto: “i pubblici ministeri che si occupano del processo sulla trattativa non vengono percepiti come pezzi della magistratura, ma come schegge impazzite, guardate con diffidenza dalle istituzioni da Anm e Csm”. Cosa rappresenta questa diffidenza da parte delle istituzioni, Anm e Csm in primis?
Per quanto mi riguarda posso semplicemente dire questo: al di là delle preoccupazioni, delle difficoltà, dei procedimenti disciplinari, dei progetti di attentato e dei rafforzamenti delle misure di sicurezza, in sostanza, a prescindere da queste oggettive difficoltà, quello che mi ha amareggiato di più in questo ultimo periodo è l’aver constatato la diffidenza, il sospetto, e, in alcuni casi, anche la presa di distanza, da parte di certi settori della magistratura. Questo è l’aspetto che mi ha colpito amaramente.
La bocciatura da parte del Csm alla sua domanda per la Dna è stata appellata al Tar del Lazio. Nel ricorso presentato dai suoi legali si fa riferimento ad una esclusione “umiliante” così come ad una “sistematica, algebricamente calcolata e calibrata sottovalutazione dell’ineccepibile e solidissimo profilo professionale del ricorrente”. Tutto questo appare come un vero e proprio ostruzionismo posto in essere dall’interno della sua categoria che rappresenta un segnale di isolamento nei suoi confronti pericolosamente lanciato all’esterno.
A mio parere, anche con la recente costituzione in giudizio dinanzi al Tar, il Csm continua a non dare una spiegazione concreta del perché abbiano preferito dei colleghi con minore anzianità in magistratura e con minore esperienza dal punto di vista degli anni trascorsi nelle Dda rispetto a quelli che potevo vantare io. Oggettivamente non credo che si possa dire che questi colleghi abbiano trattato procedimenti più complessi rispetto a quelli che ho trattato io. Il motivo del mio ricorso è proprio questo: voglio che il Csm, in termini concreti, spieghi i motivi di questa scelta. Quello che mi ha umiliato e mortificato è proprio la constatazione che sono stato escluso, così come dice il Csm, per la mia “posizione subvalente rispetto agli altri”, senza che mi sia stata data una spiegazione. Se nella valutazione negativa mi fosse stato detto: “tu sei più anziano, ma meno bravo in questo”, oppure “hai sbagliato questo”, o “non sei affidabile per quest’altro motivo”, avrei senz’altro accettato il giudizio dell’organismo di autogoverno. Ma leggendo le carte del procedimento non ho trovato alcun elemento di valutazione negativo nei miei confronti che possa giustificare la collocazione addirittura all’undicesimo posto della graduatoria.
Pur essendo il magistrato più scortato d’Italia, al di là di indagare sulla trattativa, lei si deve occupare prevalentemente di reati comuni, che sottraggono tempo prezioso alle indagini sul patto tra mafia e Stato. È del tutto evidente l’assurdità di questa sua duplice attività. A cosa si devono queste direttive alle quali deve sottostare?
Nel mio caso, così come penso in tanti altri casi, questo è purtroppo il frutto di quella che inizialmente era una direttiva del Csm sui limiti di permanenza nelle direzioni distrettuali antimafia e poi, con la riforma dell’ordinamento giudiziario (la cosiddetta riforma Mastella), è diventata, anche per i magistrati dei pool antimafia, un limite di legge, cioè un limite di permanenza di dieci anni nella stessa Dda. Si tratta quindi di una situazione che non è dovuta ad un atteggiamento, o a una decisione, di un singolo capo dell’ufficio (in questo caso di un singolo procuratore). A mio parere si tratta della conseguenza assurda di una legge sbagliata che (di fronte all’esigenza sempre più evidente di contrapporre ad un crimine sempre più organizzato dei magistrati sempre più specializzati), finisce per penalizzare questa esigenza, provocando così un effetto illogico. Quando un magistrato comincia ad avere più consapevolezza, più esperienza, muovendosi meglio nel difficile campo dell’investigazione antimafia, deve improvvisamente tornare ad occuparsi di altro. È come se (facendo un paragone con il settore medico), dopo anni di studio per specializzarsi nella branca così delicata della chirurgia, il chirurgo, quando comincia ad acquisire una manualità e un’esperienza pratica nell’intervenire chirurgicamente, dovesse tornare a fare altro, magari occupandosi del pronto soccorso, o della medicina generica. Il fatto stesso che non si parli più dell’opportunità di cambiare questa regola è un ulteriore segnale – non principale, ma comunque significativo – di un dato oggettivo: la lotta alla mafia non è più prioritaria, nemmeno all’interno della magistratura.
Molti ritengono che questo Paese non meriti chi sacrifica la propria vita cercando una verità che buona parte di questo Stato non vuole. Come è possibile allora dare un senso alla solitudine, all’isolamento, ai tentativi di delegittimazione che lei vive, infine alla scelta di rimanere in trincea?
Non so fino a quando perseguirò questa scelta. Finora, rispetto ad ogni problema e ad ogni amarezza, è prevalsa comunque la passione per il tipo di lavoro che faccio. Che è quello che ho sempre sognato di fare, con la volontà di continuare, soprattutto per quanto riguarda le indagini e il processo sulla trattativa Stato-mafia. Razionalmente mi rendo conto che può non essere la scelta giusta. Fino a questo momento ha prevalso la passione e la consapevolezza che buona parte della società è particolarmente interessata alle questioni di giustizia. L’opinione pubblica mi è stata particolarmente vicina, non per una questione personale, di simpatia, o di solidarietà personale, ma perché pretende verità e giustizia, ed evidentemente si rende conto che io e i miei colleghi stiamo cercando di agire soltanto per quei fini. La solidarietà vera, di tanta gente, ha costituito in alcuni momenti un importante conforto e uno stimolo ad andare avanti.
Il 12 gennaio 1992 Falcone diceva che “in questo Paese per essere credibili bisogna essere ammazzati”, per poi aggiungere: “questo è il Paese felice in cui, se ti si pone una bomba sotto casa e la bomba per fortuna non esplode, la colpa è tua che non l’hai fatta esplodere”. L’analisi di Falcone è più che mai attuale e ci impone una riflessione sul perché in questo Paese si debbano verificare simili condizioni. Che idea si è fatto?
Ho maturato l’idea che, così come è avvenuto nel caso di Giovanni Falcone, c’è una parte del Paese che ha quasi paura di confrontarsi con un uomo, con un funzionario dello Stato come era lo stesso Falcone. Che non rappresentava la media degli italiani, o degli appartenenti alle istituzioni italiane. Falcone non faceva calcoli di opportunismo, opportunità, non cercava il quieto vivere e ha condotto la sua battaglia anche con vero sprezzo del pericolo per la sua vita. Una parte della società italiana non poteva quindi accettarlo. Quella parte della società, sempre pronta al compromesso, sempre tesa alla ricerca del vantaggio personale e di carriera, non poteva accettare facilmente che altri ragionassero e agissero in maniera diversa. Oggi questa grande parte del Paese, questa grande parte dell’opinione pubblica, dimostra di essere senza memoria. E anche in merito a questioni così delicate, come possono essere quelle relative all’attività dei magistrati antimafia, ricade, in buona o in cattiva fede, negli errori di sempre. Negli errori del passato.
Cosa si può fare per invertire questa tendenza?
Per invertire questa tendenza possiamo sperare soltanto nella capacità dei giovani di informarsi più approfonditamente di quanto è consentito a chi si limita a seguire la stampa e la televisione generalista del nostro Paese. Bisogna indignarsi tenendo gli occhi aperti sulla realtà, senza farsi distrarre da argomenti che vengono propinati (a lungo e in maniera ossessiva) come se fossero le questioni principali del Paese e che invece servono a trascurare altri problemi, come quello della reale incidenza della mafia nell’esercizio del potere ufficiale.
* Intervista pubblicata sul n. 72 dell’edizione cartacea di AntimafiaDuemila, ottobre 2015