Fino a due anni fa sede di un seminario teologico, oggi Casa Scalabrini è una casa per rifugiati: appena inaugurata a Roma, è quasi al completo. I missionari di San Carlo Borromeo ospitano 25 persone da Africa, Siria e Birmania. Poche proteste, il progetto ha coinvolto il quartiere
ROMA – “Aprire un nuovo centro d’accoglienza a Roma, dopo gli episodi di Tor Sapienza e le inchieste su ‘Terra di mezzo’, è una grossa sfida, ma il bisogno c’è e siamo sicuri di poter lavorare bene, insieme ai cittadini”. La targa è stata appena scoperta e padre Gabriele Beltrami, addetto alla comunicazione per i missionari di San Carlo Borromeo passeggia orgoglioso nel giardino della struttura, intitolata al fondatore dell’ordine, Giovanni Battista Scalabrini. “E’ naturale”, spiega, che “come il vescovo Scalabrini, a cavallo fra ‘800 e ‘900, si dedicò alla tutela degli emigranti italiani, oggi noi accogliamo chi cerca asilo in Italia”.
quadrante est di Roma, sulla via Casilina, a metà strada fra i quartieri di Tor Pignattara e Centocelle. Zona affollata da centri d’accoglienza, spesso sorti in fretta e furia negli ultimi anni, andando poi tristemente a arricchire le cronache giudiziarie. Inevitabile dunque una certa diffidenza, anche da parte dei cittadini. Ed è proprio lì la sfida: “lavorare per una vera interazione sociale con la città e quindi per l’autonomia delle persone, andando oltre l’assistenza”. Per farlo Casa Scalabrini, appena inaugurata ma già quasi al completo, ha tutta una serie di idee, alcune ai nastri di partenza, e un metodo di lavoro coinvolgente.
Mohammed è entrato nella “casa” a fine settembre, dopo essere transitato da diversi centri d’accoglienza del Lazio. “Qui – dice – ho trovato per la prima volta un ingrediente importante dell’idea di ospitalità: la libertà e l’autonomia, che si vedono nelle piccole cose, come il fatto di poter cucinare il proprio cibo, cosa che di solito nei centri non è possibile, e di condividere le decisioni, tramite riunioni periodiche in cui ognuno ha libertà di parola”. Concetti semplici, che il direttore del centro, Emanuele Selleri, riassume con la sigla CAI, ovvero “comunità accogliente inclusiva”, che è anche il nome ufficiale del progetto. Una possibilità di esprimersi che Mohammed, trentenne guineano, ha particolarmente a cuore, essendo scappato dal paese proprio per aver parlato, come presidente di un’associazione, per chiedere un cambiamento politico. “Sono qui perché qualcuno mi ha teso una mano e mi ha fatto scappare in Senegal, se no non ci saremmo mai conosciuti”. E’ nei corridoi di Casa Scalabrini che ha incontrato il connazionale Mamadou, storia simile e recentissimo approdo nella struttura. Professore di matematica al liceo, attivo nella “primavera guineana” del 2007 e scappato per miracolo dalle mani dei carcerieri del dittatore Lassana Conté, ha anche lui alle spalle l’esperienza di diversi centri d’accoglienza e una permanenza in Germania, dove, se solo i documenti italiani glielo avessero permesso, avrebbe avuto un lavoro sicuro.
Oltre a Mohammed e Mamadou, il centro ospita 25 persone e arriverà presto a 31, capienza massima. Tre le famiglie, per un’età che va dai 12 ai 70 anni, e 14 i paesi d’origine, dall’Africa occidentale a Sudan, Eritrea, Siria e Birmania. “Si tratta”, ci spiega il direttore Selleri, “di persone che hanno già una buona conoscenza del territorio ma non riescono, al momento, a pagare un affitto in modo continuativo, cosa ancora più difficile per famiglie con figli”. Con queste persone i tre operatori, direttore incluso, pensano a forme di inserimento professionale e di interazione con il quartiere. “A breve”, continua Selleri, “avvieremo cinque tirocini con aziende agricole poco lontane, con una borsa lavoro di quattro mesi, mentre da novembre apriremo un laboratorio di sartoria all’interno della casa, gestito da volontari esperti”. L’apporto di volontari è fondamentale, dai sarti ai manutentori, “cittadini di Centocelle, che, dapprima un po’ diffidenti, adesso vengono a dare una mano e poi si fermano a mangiare con gli ospiti”. Frutto di un lavoro informativo avviato mesi fa con scuole, parrocchie, associazioni e istituzioni del territorio, con la volontà “di arrivare a oggi che tutti sapessero che questo centro c’è, chi siamo e cosa facciamo”. Aspetto importante, che ha minimizzato gli episodi di protesta che, da Tor Sapienza a Casale San Nicola, Infernetto e nei giorni scorsi al Tiburtino, hanno spesso accompagnato l’apertura di nuovi spazi di accoglienza nella capitale.
“Fino a un anno fa”, sottolinea padre Beltrami, “questa era la sede del Seminario Teologico scalabriniano, oggi è giusto che sia una casa per i rifugiati”. L’idea, nata nel 2013 in seno alla congregazione dopo il richiamo di Papa Francesco ad aprire i conventi ai rifugiati, è stata poi sostenuta da fondi dell’Elemosineria Vaticana e della Conferenza Episcopale Italiana e ha coinvolto anche due realtà impegnate nell’accoglienza come Centro Astalli e Caritas, che “fanno da filtro, individuando le persone che hanno bisogno di questo tipo di ospitalità per poi segnalarcele”. Adiacente alla casa, anche uno studentato gestito dai padri scalabriniani. “Sono strutture diverse, che”, auspica Selleri, “in futuro vorremmo interagissero, anche con iniziative comuni”. Una fra tutte? Una web radio condotta dai rifugiati, a cui il centro sta lavorando con l’associazione Fusolab, per “mettere musica e dare informazioni in diverse lingue, anche sui servizi del territorio, in modo da intercettare i molti rifugiati che, a Roma, faticano ancora a sentirsi a casa”. Progetti aperti al quartiere, con l’idea di fondo di “mettere le persone nelle condizioni di dare un contributo alla costruzione del futuro dell’Italia”.
Concluso il giro della struttura, Mamadou saluta. “Devo andare a dare ripetizioni di matematica a alcuni studenti italiani di liceo”, spiega, “lo faccio almeno due volte alla settimana, nei momenti buchi del mio tirocinio come receptionist d’hotel”. Con il sogno di contribuire alla crescita dell’Italia vedendosi riconosciuta la laurea e arrivando a insegnare anche qui. (Giacomo Zandonini)