La prima fotografia mostra un gruppo di ragazzi. Sono legati uno all’altro, i polsi stretti nelle manette. Alzano le braccia per mostrarle, lo sguardo sembra spaventato. È una foto mossa scattata di nascosto dentro un aeroporto. Mi arriva sul cellulare senza commento. Mostra ragazzi siriani in arresto. Alcuni volti li riconosco, li ho incontrati a metà settembre sull’autostrada tra Istanbul ed Edirne, vicino al confine greco dove andavano ad implorare l’Europa che aprisse i confini, che li lasciasse entrare senza che fossero costretti a rischiare la vita nel mar Egeo.
Per questo sono in arresto. Li avevano sgomberati con la forza allora e oggi li hanno portati via in manette.
Subito dopo la foto mi arriva un messaggio vocale che spiega che la polizia è andata a prenderli la mattina presto a casa ad Istanbul, li ha caricati su un pullman e li ha portati in aeroporto per metterli su un volo diretto ad Erzurum in quello che il governo turco chiama un campo per rifugiati.
La voce registrata parla inglese e dice: “Siamo in una prigione, non in un campo. Non ci danno da mangiare e da bere da due giorni, non c’è niente qui. Abbiamo bisogno di un avvocato, vogliamo un processo vero ed equo che ci renda giustizia. Noi non abbiamo fatto niente, perché siamo qui?
La polizia ci ha portato qui con la forza, ci hanno picchiato, urlavano contro di noi. Perché?
Abbiamo bisogno di aiuto, vi prego salvateci!”
I gendarmi turchi hanno portato via intere famiglie, il campo prigione di Erzurum oggi è pieno di bambini, moltissimi sotto i dieci anni. Sono gli stessi che hanno marciato sull’autostrada per l’Europa con il sorriso sulle labbra e nelle orecchie l’eco degli applausi che accoglievano i siriani nella stazione di Monaco.
Arriva una seconda fotografia che mostra il volto di un ragazzo con una ferita sullo zigomo e un occhio pesto. Una terza mostra una grande stanza con letti a castello e a terra materassi con sopra bambini addormentati. Le famiglie che hanno camminato per 230 chilometri sull’autostrada per la Grecia nella speranza di poter attraversare i confini d’Europa senza rischiare di annegare in mare e senza foraggiare la mafia dei trafficanti di uomini ora dormono nelle stanze grigie e sporche di quello che il governo turco chiama un campo per rifugiati e invece è una prigione, dove non c’è acqua, non c’è da mangiare, le stanze sono chiuse ed è proibito anche fumare.
Mentre sul mio telefono continuano ad arrivare messaggi, la tv rilancia le notizie del vertice europeo di Bruxelles. L’Europa si prepara a stringere un accordo con il governo Turco per “contenere il flusso di migranti” e pare sia pronto ad accogliere la richiesta turca di 3 miliardi di euro.
Contenere il flusso. Nel campo di Erzurum stanno facendo esattamente questo: il governo turco rinchiude i siriani per impedirgli di prendere il mare verso la Grecia. E li porta lontano dal mare, ad Erzurum, nell’Anatolia orientale, a ridosso del confine con l’Armenia. Un campo prigione senza riscaldamento, dove l’inverno il freddo arriva a -11.
La tv rilancia altre notizie sul fallimento del vertice sul piano della distribuzione dei rifugiati. Gli stati europei litigano ancora su poche decine di migliaia di persone e, allo stesso tempo cercano accordi con i paesi di confine come la Turchia e la Bulgaria. Poco dopo arriva una nuova notizia: proprio sul confine bulgaro la polizia di frontiera ha sparato, un ragazzo afgano è morto. Colpi di fucile. La ricostruzione dice colpi di avvertimento, un proiettile deviato, parla di una pistola nella borsa del ragazzo morto. Sembra la scena di un film già visto, dove tutti già conoscono il finale. Era così facile da prevedere una conclusione come questa, quasi scontata quando si spendono milioni di euro per erigere muri e si proteggono i confini invece di proteggere le persone che scappano da guerra e persecuzione. Dicono avesse una pistola nella borsa quel ragazzo morto, sembra un goffo tentativo di dimostrare che hanno sparato contro gente pericolosa. L’alto commissariato ai rifugiati delle nazioni unite chiede l’apertura di una inchiesta. Nel frattempo l’Ungheria decide di chiudere i confini con la Croazia.
Il mio telefono vibra ancora. Arriva la fotografia di una tessera, un badge con in alto la bandiera turca e quella europea una a fianco all’altra e sotto la scritta “instrument for pre-accession programme”. C’è scritto lotto numero 1 “EC Contribution 85% and National Contribution 15%”. La voce registrata non da spiegazioni. Un messaggio di testo invece spiega che gli hanno consegnato quel badge all’ingresso nel campo poi la linea si interrompe e cala il silenzio. Probabilmente si scarica la batteria e chissà se riusciranno a caricarla di nuovo.
Cosa significhi quel badge non è chiaro, certo che sembra una vera beffa. C’è scritto “pre-accession”, ma l’accesso all’Europa per queste persone è vietato dai nuovi accordi, resteranno chiusi nei centri pagati all’85 per cento dall’Europa e al 15 per cento dalla Turchia. Forse è questa la lettura giusta. Quei tre miliardi di euro serviranno a questo e magari qualcosa di quei soldi servirà anche a fornire nuovo equipaggiamento alla polizia di frontiera, quella che vigila armata di fucile sui confini d’Europa.