Se proprio non si poteva evitare il calderone della riforma penale, almeno si poteva scegliere una via migliore per occuparsi di intercettazioni. Lo scrittore Gianrico Carofiglio non condivide il metodo di “delegare al Governo una materia tanto sensibile da un punto di vista costituzionale”.
Non poteva essere più chiaro l’autore, già magistrato e senatore, che proprio in questi giorni sta presentando il suo “Con parole precise. Breviario di scrittura civile” edito da Laterza che richiama l’attenzione sulla chiarezza e l’oscurità delle scritture del potere: in ambito politico ma anche giudiziario oltre che giornalistico. “La chiarezza è democrazia, l’oscurità è antidemocratica” rincara.
Il ddl di riforma del processo penale quindi è?
Piuttosto discutibile, diciamo, e per parecchie ragioni. Si tratta di un calderone che contiene disposizioni eterogenee che non riguardano solo la procedura penale. Soprattutto suscita dubbi la scelta dello strumento della legge delega per modificare la disciplina delle intercettazioni.
Cerco di spiegarmi con chiarezza, perché anche i non addetti ai lavori capiscano.
La legge delega è, appunto, una legge con la quale il Parlamento attribuisce al Governo la facoltà di legiferare in una specifica materia. E’ uno strumento che, di regola, va usato quando la materia da trattare sia molto complessa, richieda cognizioni tecniche e dunque un lungo procedimento di formazione della relativa legge. Serve a evitare che il Parlamento debba occuparsi a lungo di temi altamente tecnici, di scarso rilievo politico e che rischierebbero di paralizzarne la normale attività.
E’ uno strumento invece che non va usato quando la materia riguarda direttamente e da vicino diritti di rilievo costituzionale, come in questo caso: si tratta infatti di questioni cruciali sulla libertà di informazione, intesa come libertà di informare e libertà di essere informati. Su queste materie è necessario che vi sia il più ampio dibattito parlamentare. Non è bene che certe decisioni siano prese dall’esecutivo.
Per qualcuno è il solito pretesto per rispondere alle esigenze di velocità nell’intervento…
Temo che con la consueta e deprecabile pratica di mettere insieme cose molto diverse si continui a sconquassare il sistema della giustizia penale, che richiederebbe invece interventi omogenei, organici e meditati. Inoltre alcune norme – quelle che alludono alla auspicabile velocizzazione dei procedimenti senza fornire gli strumenti per realizzarla – reiterano una vecchia pratica: di scaricare sui magistrati il peso e la responsabilità di un sistema che funziona male soprattutto per ragioni organizzative e dunque politiche.
Nello specifico il Governo dovrà predisporre norme per evitare la pubblicazione di conversazioni irrilevanti ai fini dell’indagine e comunque riguardanti persone completamente estranee attraverso una selezione del materiale relativo alle intercettazioni (…).
Non ripeto quello che ho già detto sulla pericolosità di affidare al governo e non al dibattito parlamentare le scelte su una materia così costituzionalmente sensibile. Aggiungo solo che il concetto di persone estranee è sfuggente e pericoloso. Faccio un esempio: immaginiamo che da una intercettazione disposta in una indagine per droga vengano fuori conversazioni che coinvolgono un uomo politico. Conversazioni che non c’entrano nulla con la droga (come non c’entra nulla con la droga il soggetto in questione) ma nelle quali il suddetto politico si lasci andare per esempio a espressioni razziste, omofobe, nelle quali riveli retroscena di malcostume politico, anche se non penalmente rilevanti, o altro. Egli sarebbe “persona estranea” e le sue conversazioni non sarebbero pubblicabili? Non ci sarebbe un interesse pubblico alla conoscenza di tali conversazioni? Io sono un po’ preoccupato.
Non sono mancati i paragoni con i tentativi attuati durante i governi Berlusconi.
Sono paragoni sbagliati. Berlusconi voleva incidere sulla materia limitando pericolosamente l’utilizzabilità delle intercettazioni come strumento di indagine. Cosa non prevista dal disegno di legge di cui stiamo parlando. Tanto premesso, rimangono tutte le considerazioni critiche di merito e di metodo di cui abbiamo detto.
Del resto nel suo libro scrive: “La qualità di una democrazia dipende, quindi, in grande misura, dalla qualità delle discussioni che la animano: una discussione per potersi considerare democratica, dev’essere anzitutto aperta a tutti (…).
Sì, la democrazia è soprattutto discussione libera e aperta a tutti. Non le giovano le censure più o meno mascherate, la manipolazione dell’informazione e le decisioni su materie di diritti fondamentali prese nelle stanze chiuse del governo piuttosto che nelle aule parlamentari.
Dove nasce l’idea di scrivere un testo sulla precisione e la chiarezza?
Da un’esigenza personale e politica insieme. La necessità di affrontare il disagio, a volte anche il disgusto per il modo con cui viene maneggiata la lingua nei luoghi del potere: nella politica, nel diritto, nella burocrazia e anche nel giornalismo. Un disagio che nasce dalla consapevolezza che la democrazia è fatta di parole precise, chiare, che dicano la verità. Dire la verità significa chiamare le cose con il loro nome. Dare il nome giusto alle cose è un atto rivoluzionario, diceva Rosa Luxemburg. Chiarezza e democrazia; oscurità e autoritarismo, più o meno mascherato. Il libro parla di questa antitesi.
Significato di scrittura civile?
È quella che dice la verità, in modo da farla comprendere. Molti politici non capiscono quanto sia potente la verità detta bene, in modo da essere comprensibile; in modo da comunicare i valori. In generale chi si muove nel potere appartiene, con le dovute eccezioni, a due categorie: quelli che dicono bene le bugie e quelli che dicono male la verità. Il compito della buona politica è (anche) dire bene la verità.
Si fa politica anche scrivendo libri?
Direi proprio di sì. “Con parole precise”, è un libro politico nell’accezione del termine che più mi piace: l’impegno di ognuno, con i suoi mezzi e secondo le sue specificità, ad intervenire nel dibattito sulla qualità della democrazia e della vita pubblica.
Stefano Rodotà, presentando “Con parole precise” si è addirittura sbilanciato dicendo: “leggete questo libro: esso è una buona azione civile”.
La mia intenzione era proprio quella: cercare di fare una buona azione civile. Se a uno come Stefano Rodotà sembra un obiettivo raggiunto, beh la cosa non può che farmi molto piacere.