“Per la sua opera polifonica, tributo al coraggio e al dolore dei nostri tempi”. Questa la motivazione con cui l’Accademia Reale Svedese ha conferito il premio Nobel per la Letteratura 2015 a Svetlana Alexievich, giornalista e saggista bielorussa che ha raccontato nella sua opera l’Unione Sovietica nel secondo dopoguerra, dal conflitto in Afghanistan in “Ragazzi di zinco”, all’orrore di Cernobyl in “Preghiera per Cernobyl”, fino all’amarezza di un’umanità smarrita, vittima prima dell’utopia feroce del regime sovietico, finito sotto i colpi della perestrojka gorbacioviana, e dopo di un oblio di speranze inattese e disincantato vivere con la “democrazia controllata” intrisa di ombre e censure di Vladimir Putin in “Tempo di seconda mano”.
Una donna Svetlana Alexievich che Aleksandr Lukašenko, presidente della Bielorussia dal 1994, ha costretto a diventare esule per molti anni, perché accusata dal regime di essere un agente della Cia solo per oscurarla nel freddo dei dimenticati, ma il buio del carnefice in apparenza invincibile resta inerme e sconfitto contro le parole dei suoi libri tradotte in più di quaranta lingue.
Nel suo romanzo d’esordio, “La guerra non ha un volto di donna”, la scrittrice ha raccontato la guerra attraverso le donne in una serie di interviste alle innocenti protagoniste sovietiche della Seconda Guerra Mondiale, voci di un’intima tempesta, il viaggio nella memoria dell’orrore pensando al respiro della pace.
Il premio Nobel a Svetlana Alexievich
nata il 31 maggio 1948 a Ivano-Frankivsk, città dell’Ucraina occidentale, da padre bielorusso e madre ucraina, scelta tra scrittori come Philp Roth e Haruki Murakami è un premio alle idee libere per cui troppo spesso manca la carta o viene resa silente la voce, uno sguardo verso un cielo velato di una speranza che nutre.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21