Corrispondente da Ragusa de “L’Ora di Palermo” e de “l’Unità” tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi dei Settanta, Giovanni Spampinato fu ucciso dalla mafia il 27 ottobre 1972. Vogliamo ricordarlo nel bell’articolo scritto da Federico Orlando (presidente di Articolo21, scomparso l’8 agosto 2014) scritto sul sito www.articolo21.org ed Europa Quotidiano il 13 giugno 2009 all’indomani dell’uscita del libro di Alberto Spampinato, fratello minore di Giovanni “C’erano bei cani ma molto seri. Storia di mio fratello Giovanni ucciso per aver scritto troppo”.
Gli etruschi e gli egizi avrebbero tratto, da una serie di piccoli fatti accaduti in questi giorni, cattivi presagi per la legge contro le intercettazioni di polizia giudiziaria, votata dalle quadrate legioni di Berlusconi e accodamento di frangette Pd e Udc. Muore Vittorio Nisticò, il direttore de L’Ora, che a Palermo, come un piccolo Paese sera, faceva la guerra alla mafia nei primi decenni della repubblica.
Nell’Italia dei valori la nuova eurodeputata Sonia Alfano, figlia di giornalista ucciso dalla mafia, eletta sia nelle Isole che nel Nord Ovest, viene fatta optare per il Nord Ovest, e così non va a Strasburgo il giornalista Carlo Vulpio, anche lui candidato in quel collegio, e già a suo tempo esonerato dal Corriere della Sera dal seguire le inchieste del procuratore De Magistris.
Esce da Ponte alle Grazie (Firenze) un libro dal titolo criptico, C’erano bei cani ma molto seri, scritto dal quirinalista dell’Ansa Alberto Spampinato. Il fratello maggiore di Alberto, Giovanni, che aveva 25 anni ed era cronista de L’Ora da Ragusa, fu ucciso nel ’72 a rivoltellate dal figlio del presidente del tribunale di Ragusa, per aver “scritto troppo”: diciamo «insabbiamenti, depistagli, contrabbando, trame nere, sentenze di favore», come ricorda Alberto nel suo libro.
Con tutte queste cose, i “bei cani ma molto seri” non ci azzeccano: finché non si scopre che è un ricordo degli anni felici, quando i fratelli ragazzini e poi giovani mangiavano semi di girasole nelle campagne ragusane, sentivano l’odore del latte sprizzato dagli uberi delle mucche, giocavano coi bei cani seri dell’azienda, finché uno fu legato al guinzaglio, guaiva, ululava, infine l’ammazzarono perché aveva la rabbia. L’anno dopo fu ammazzato Giovanni (sembra di leggere Sciascia) perché aveva la rabbia anche lui, i suoi articoli mordevano ai polpacci la città “babba” (bonacciona, così i palermitani definivano la Sicilia orientale), tutti bravi professionisti, medici, avvocati, magistrati, agrari, padroni di miniere, mercanti, funzionari, guardiani: mafiosi anche loro, come quelli della Sicilia occidentale, ma tutti con la cravatta e con la lupara chiusa nell’armadio, e tanto “Dio patria famiglia”, come si dice anche oggi fra libertine e assatanati di governo.
Allora i giudici non disponevano di intercettazioni per scoprire reati, e nemmeno aspiravano ad averle, perché non sempre aspiravano a scoprire e punire reati. Erano colonne della borghesia latifondista e gli interessava che l’ordine regnasse fra i contadini. I loro contadini. Gli bastavano le soffiate dei confidenti, e l’ergastolo sempre pronto per gli imputati-contadini, perché essere contadini poveri era di per sé condizione soggettiva di colpevolezza.
Poi vennero gli anni Sessanta-Settanta, la rivoluzione metà luci metà ombre, nacquero i magistrati democratici, in procura si dissolsero le gerarchie dove i capi impedivano le inchieste ai sostituti, o le revocavano, o le chiudevano in archivio, secondo i desideri del governo e gli interessi delle mafie: sicule, romane, padane. Democratici o non, in vent’anni i nuovi magistrati e qualche idealista di antica scuola (Borrelli, Maddalena) distrussero le cupole di Tangentopoli e della Mafia, due vampiri che però si riproducono e, a loro volta, distruggono i giudici: fino a togliergli le intercettazioni e riportarli alle soffiate dei confidenti.
Che è come riportare i medici dalla tac alle sanguisughe, dice Gian Carlo Caselli, che definisce le intercettazioni “radiografie giudiziarie”. Oggi Giovanni Spampinato avrebbe 62 anni, e s’accorgerebbe che la vita, rischiata mille volte nel nostro mestiere di cronisti di frontiera, fa un salto indietro di quarant’anni, ci riporta a quando avevamo i bei cani molto seri e i semi di girasole, e i confidenti di polizia per i giudici, e il prezzemolo delle mammane per le donne. Sempre in nome di “Dio patria famiglia”. E del governo.
Quando uccisero Giovanni, a L’Ora si interrogavano ancora su Mauro De Mauro, sparito due anni prima in qualche colata di cemento armato della mafia. Dieci prima era stato ucciso a Termini Imerese un altro giovanissimo e brillante cronista de L’Ora, Cosimo Cristina. Quand’ebbe la notizia di Giovanni, il direttore Nisticò scrisse in piedi un editoriale sul bancone della tipografia, la storia, autentica semplice ed epica, della sua squadra di matti come lui: “Ucciso perché cercava la verità a prezzo di sangue”. Trentacinque anni dopo, uno di loro, Paolo Di Stefano, scrisse sul Corriere della Sera che Giovanni aveva cercato, da cronista, fino in fondo, la causa di quella che sarebbe stata la sua morte; causa ancor oggi ignota (o quasi).
La giustizia in terra di mafia funzionava così: giudici e poliziotti che morivano indagando, giudici e poliziotti che ingrassavano insabbiando.
Diventerà così tutta l’Italia? La risposta è tragica, è sì: magistratura e polizia giudiziaria disarmate di intercettazioni, mafia e altra delinquenza tranquille che nessun “grande orecchio” ascolterà. Non ascolterà gli affari criminali, le truffe immonde, le voglie lascive del potere. Tutto tornerà arcana imperii. Com’era in principio.
La mafia piduista e ordinaria sta anche al governo, e ci stanno i fascisti “untorelli o criminali” che Giovanni Spampinato descriveva in uno dei suoi articoli per L’Ora, riprodotto nel libro del fratello. Peccato che il libro non sia uscito qualche giorno prima: si poteva mandarlo in omaggio a tutti i 320 deputati di maggioranza e franchi tiratori, che hanno votato la soppressione delle intercettazioni e il disarmo dello stato. Un bell’elenco di nomi. Come quello dei 640 morti di mafia, letti qualche anno fa sulla piazza del Campidoglio dall’associazione Libera di don Ciotti, che fece sobbalzare Alberto quando sentì “Giovanni Spampinato” e lo indusse a scrivere la storia. Oggi a piazza del Campidoglio bivaccano fascisti e conciona Gheddafi.