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Europa. Se l’Unione è una somma di impotenze politiche

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Così com’è strutturata, l’Unione europea è un’aggregazione male assortita di Stati nazionali privi di reale sovranità. Allo stesso tempo, però, anche l’Europa nel suo assieme manca di sovranità, non dimostra la volontà di andare verso un vero federalismo europeo e continua così a contare poco sul piano internazionale.

di Felice Mill Colorni 

C’è poco da fare. A livello statale non è più possibile nessuna forma di autodeterminazione democratica. O la politica europea si dota di strumenti di decisione democratica a livello europeo, o la democrazia non può più funzionare. Prima lo si capirà e meno disastrosi saranno gli effetti sull’idea stessa di democrazia. La sovranità nazionale non esiste più, e non è comunque più uno strumento adeguato alle sfide del nostro tempo.

La lista Tsipras, qualunque cosa se ne pensasse, era parsa a molti portatrice di un’alternativa politica radicale alle politiche economiche prevalenti in tutta Europa. Pur dopo che la maggioranza che ne sostiene il governo era stata rafforzata da un referendum popolare sostanzialmente inteso come un voto di fiducia, Tsipras era stato costretto ad accettare un piano di «austerità» perfino più duro di quello contro il quale aveva convocato il referendum. Ora che le elezioni anticipate sembrano averlo confermato in carica, magari si cercherà qualche accomodamento o imbellettamento che consenta una difficile convivenza fra governi per i prossimi quattro anni. Ma è molto difficile che le cose per la Grecia cambino nella sostanza.

Da anni paludati commentatori ci ammoniscono che la democrazia europea non è possibile, perché un popolo europeo non esiste, perché il demos non si è mai costituito, perché non esiste un’arena politica europea, perché manca una lingua comune, perché una democrazia sovranazionale non si è mai vista.

La democrazia non si era mai vista neppure su scala nazionale fino a un paio di secoli fa, e fino a tre secoli fa neppure con un numero ridottissimo di aventi diritto al voto. Quando esistono ottime ragioni a loro sostegno, capita, talvolta, che cose mai viste in precedenza compaiano alla ribalta della storia. La quale ha sempre più fantasia di chi pretende di conoscerla in anticipo. Il più delle volte, è vero, nel male, ma qualche volta anche nel bene. I passati settant’anni di pace fra i paesi dell’Europa occidentale in precedenza non si erano mai visti.

A ben vedere, la (incontestabile) legittimità formale dei limiti posti all’autodeterminazione democratica degli Stati-nazione europei è una diretta e paradossale conseguenza dell’uso che le classi politiche statali hanno fatto in questi anni della stessa sovranità nazionale che erano stati eletti a rappresentare ed esercitare. Sono state le classi politiche statali che hanno voluto un’Europa intergovernativa anziché democratica e federale. Sono state le classi politiche statali che hanno preferito scaricare su un’Europa politicamente acefala e burocratica le scelte politiche impopolari che, a torto o a ragione, ritenevano opportune. Salvo poi accusare demagogicamente questa impersonale «Europa» per le scelte che essi stessi avevano concordato all’unanimità nelle riunioni a porte chiuse del Consiglio (l’organo dell’Unione che è costituito dai rappresentanti degli esecutivi). In Italia si sono addirittura visti attaccare l’«Europa» e le sue politiche di austerità quegli stessi politicanti che avevano concordato nel Consiglio e ratificato con il loro voto nei due rami del Parlamento italiano il Fiscal Compact, che della politica dell’austerità ha rappresentato l’apogeo.

All’inizio, la prima comunità europea – la Ceca, Comunità europea del carbone e dell’acciaio – non funzionava così. La Ceca era stata costituita nel 1951 per mettere in comune la gestione delle due risorse strategiche indispensabili alla guerra. Se agli Stati nazione europei – era la logica del progetto – veniva sottratta la gestione in autonomia di tali risorse, la guerra fra europei sarebbe stata pressoché impossibile. La gestione della Ceca era essenzialmente comunitaria, non intergovernativa. Non aveva una gestione democratica – il Parlamento europeo ancora non esisteva – ma i regolamenti, dotati di forza di legge in tutti i paesi membri, erano emanati dalla Commissione, non dai governi statali.

All’aumento delle competenze europee corrispose solo fino in minima misura lo sviluppo del sistema in senso federale. Dal 1979 eleggiamo direttamente il Parlamento europeo, ma non si tratta di un Parlamento dotato – per le competenze che gli Stati hanno deciso di gestire a livello europeo – degli stessi poteri dei normali parlamenti delle nostre democrazie liberali. E il Parlamento non è eletto con una legge elettorale comune, ma con 28 leggi elettorali diverse. E non si votano i partiti europei, che sono mere federazioni di partiti statali legati fra loro da affinità ideologiche spesso alquanto vaghe. Si votano i partiti statali.

Furono proprio i due principali fautori dell’allargamento decisivo delle competenze comuni – Valéry Giscard d’Estaing e Helmut Schmidt – a rafforzare il peso dei governi statali nel processo decisionale dell’Europa, in qualche misura rinazionalizzandolo in modo occulto. È vero che il trattato di Lisbona, come già quelli precedenti, ha poi anche parzialmente allargato le competenze del Parlamento europeo. Ma mai fino al punto di superare il ruolo decisivo del Consiglio nella determinazione delle scelte europee di fondo.

Del resto, già più di un terzo di secolo fa, ai tempi del primo governo Mauroy, il primo esecutivo della presidenza Mitterrand, l’interdipendenza economica fra paesi europei ed occidentali era già andata così avanti da non consentire di fatto politiche economiche nazionali in netta controtendenza con quelle dei partner. La globalizzazione come la conosciamo ora era di là da venire, ma quell’esperimento non durò che pochi mesi e Mitterrand, come oggi Tsipras, fu costretto ad allinearsi.

Ora che le dimensioni del mondo si sono così rimpicciolite, che le tecnologie hanno annullato le distanze, che i poteri economici si sono pienamente internazionalizzati, è evidente che solo a livello continentale gli europei potrebbero riacquistare capacità di autodeterminazione democratica. Qualunque politica essi desiderino poi perseguire. L’alternativa è eleggere rappresentanti politici diversi magari per stile, moralità personale, immagine ideologica. Ma incapaci di incidere su scelte che semplicemente non sono più nazionali.

Fino a pochi anni fa, il nazionalismo era prevalentemente un attributo della destra, spesso della destra reazionaria. I progressisti erano semmai internazionalisti, mentalmente e culturalmente cosmopoliti. Non dovrebbero essere i progressisti a darsi da fare per far acquistare agli europei la capacità di autodeterminazione comune che sola potrebbe rivitalizzare la democrazia, piuttosto che tifare per le affermazioni ormai solo simboliche dei propri consentanei nel chiuso recinto dei rispettivi Stati-nazione?

(pubblicato su Confronti di ottobre 2015)

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