Il 16 ottobre ricorrevano i dieci anni dall’omicidio di Francesco Fortugno, vicepresidente del Consiglio Regionale della Calabria, ammazzato nel 2005 a Locri, davanti al seggio istituito per votare le primarie dell’Ulivo. Nel 2007 è uscito per Dalai Editore Ammazzàti l’onorevole. L’omicidio Fortugno. Una storia di mafia, politica e ragazzi del giornalista e scrittore Enrico Fierro che ha voluto raccontare le complicità, le sottovalutazioni, la Calabria delle ambiguità. Raggiunto telefonicamente, Fierro ha acconsentito a rispondere a qualche nostra domanda riguardo quanto accaduto dieci anni fa in Calabria e su quello che avviene oggi nel nostro Paese.
Chi era Francesco Fortugno?
Francesco Fortugno era un politico sostanzialmente democristiano, penso ideologicamente e proprio come struttura mentale. Ne conseguiva una modalità di rapporto che lui aveva con l’elettorato. Era una brava persona che si era trovato a svolgere un compito impegnativo, quale era fare il vicepresidente del Consiglio Regionale in Calabria in quegli anni.
Sapendo che però in questo modo entrava in un vortice che è quello della Calabria politica, che è fatta di trasformismi, di gruppi di pressione e di potere, di lobby di interesse, soprattutto quando parliamo di Sanità, che rappresenta il 74% della spesa della Regione Calabria e in quegli anni non era ancora commissariata ed era il terreno di caccia della politica.
Chi sono stati i ragazzi che hanno creato il Movimento contro la mafia e cosa sono diventati oggi?
Dieci anni fa, quando noi giornalisti di testate nazionali arrivammo a Locri era da molti anni che la Calabria non attirava su di sé le attenzioni della stampa nazionale.
Come disperati arrivammo in questa cittadina della locride avendo difronte la realtà di una mafia potentissima che poteva permettersi di ammazzare in pieno giorno, durante una manifestazione politica importante, il voto per le primarie a Prodi, un importante esponente del mondo politico.
Ci aggrappammo a quello che vedemmo: scuole mobilitate, insegnanti che aiutavano gli studenti, ricordo in un Liceo di Locri, a fare gli striscioni contro la mafia. Una mobilitazione di coscienze che in Calabria non si vedeva dagli anni ’70.
Quel Movimento fu in larga parte spontaneo. Ma intorno a esso si innestarono anche individualità molto forti. Vedi la presenza dell’inventore di questo slogan “E adesso Ammazzateci Tutti”, che era una individualità significativa, un ragazzo che aveva presa sugli altri studenti.
Quello che mi colpì, ricordo, fu che dopo due o tre giorni venni a sapere che questo slogan “E adesso Ammazzateci Tutti” era stato in qualche modo depositato come un brand alla Camera di Commercio, o roba simile. Mi colpì questa cosa che in qualche misura contrastava con la spontaneità.
Comunque sia questa presenza giovanile attirò le attenzioni di tutto il Paese. Ricordo che all’epoca c’era anche una trasmissione molto seguita di Adriano Celentano, RockPolitik, che invitò due di questi ragazzi a inizio trasmissione con le gerbere gialle in mano.
Il Movimento è andato via via morendo, sono rimaste alcune sigle, come Ammazzateci Tutti. Si è smembrato ed è stato in qualche misura attirato dalla politica. Ammazzateci Tutti fu per un periodo vicino alle posizioni di De Magistris, il suo leader partecipò sul palco a una iniziativa con Grillo a Roma, a iniziative con La Margherita, poi fu attirato nell’orbita del Pdl e di Scopelliti.
Un’altra giovane ragazza che partecipò al Movimento, la figlia del giudice Scopelliti, fu poi eletta al Parlamento, ed è attualmente parlamentare e membro della Commissione Antimafia.
Tanti altri giovani hanno ritenuto di esaltare quella stagione facendo il loro percorso di vita, di studi, approfondendo e laureandosi, entrando in qualche modo nel mondo del lavoro e delle università…
Insomma una bella fiammata che poi è finita lì.
Se adesso tu vai alla ricerca in Calabria di movimenti giovanili analoghi non li trovi. Trovi un associazionismo antimafia in buona parte generoso, penso a Libera, alla gestione di alcune terre strappate alla mafia nella Piana di Gioia Tauro, ma trovi pure un associazionismo antimafia che è fatto di interessi, di finanziamenti pubblici, di protagonismi politici sbagliati, di polemiche spesso inutili. Attualmente è sotto inchiesta un personaggio che era presidente di un fantomatico museo della ‘ndrangheta. Si parla di 800mila euro di finanziamento pubblico. La magistratura vuole giustamente sapere questi soldi come sono stati utilizzati, come sono stati spesi.
E questo non è un bel capitolo di quella stagione, quando l’antimafia si trasforma in affare non è mai un buon obiettivo perché poi delude gli altri, lascia le associazioni che fanno onestamente il loro lavoro, le isola, isola le persone… penso ad esempio a una persona a me molto cara in quell’area della locride, Mario Congiusta. Il figlio Gianluca ucciso dalla ‘ndrangheta, un processo ancora in corso dal 2005/06, verità ancora non completamente accertate.
Ormai è un uomo solo che combatte per la verità sull’omicidio del figlio, avrebbe bisogno di solidarietà. Tutto questo non c’è oggi in Calabria.
Ammazzàti l’onorevole le ha portato pesanti strascichi giudiziari. Come ha vissuto gli eventi di questi anni?
Io dico una cosa molto semplice: quando scrivi devi sapere che lo fai per te stesso, soprattutto quando sono libri di inchiesta e soprattutto quando sono libri di mafia, in modo particolare quando sono libri che parlano della Calabria, che è una terra ingrata.
Avevo raccolto tanto materiale, seguito in ogni suo passaggio la vicenda delle indagini sull’omicidio Fortugno, osservato il clima politico e sociale della Calabria, parlato con tante persone… ma non mi aspettavo granché, devo dire la verità.
Il libro ha ricevuto delle pesantissime querele e ovviamente delle richieste di risarcimento danni per me ammontanti a 700mila euro, cifra che io non immagino neppure di possedere un giorno nella mia vita, e all’editore Alessandro Dalai di Baldini&Castoldi di qualche milione di euro.
Abbiamo svolto questa causa a Padova, perché lì è stato stampato il libro e quella era la Procura competente. Abbiamo convocato testimoni, abbiamo fatto questo, abbiamo fatto quello… alla fine abbiamo vinto. Con un piccolo particolare, che anche quando vinci gli avvocati che ti hanno difeso li devi pagare lo stesso. Parliamo di qualche migliaia di euro.
Nel frattempo Alessandro Dalai è fallito. Anche se la Baldini&Castoldi esiste ancora. E si è rifiutato, da editore fallito come gli ho detto io non solo economicamente ma umanamente, di pagare gli avvocati. Ora, siccome quando tu fai una causa intrecci anche un rapporto di cordialità, di amicizia con gli avvocati, essendo io pure meridionale ho questo piccolo difetto di avere come principio nel mio Dna che i debiti si onorano, soprattutto quando qualcuno ha lavorato per te. E quindi ho pagato anche per l’editore.
Quel libro era scomodo anche per quel Movimento e per chi inizialmente lo ha apprezzato, perché entrava nei meccanismi del sistema di potere, non si limitava a dire: i mafiosi che hanno ammazzato Fortugno sono brutti, sporchi e cattivi, assolutamente no. Ma cercava di capire, ad esempio, chi dentro lo stesso partito di Fortugno, all’epoca La Margherita oggi PD ma sono più o meno gli stessi personaggi, erano i nemici di Fortugno. E lì il punto centrale furono le elezioni del 2005, le elezioni regionali, quando a un certo punto venne candidato un oppositore di Fortugno, che era questo medico, Mimmo Crea, proprietario di alcune cliniche convenzionate con la Regione, il quale dal CCD passa a La Margherita, si candida e viene sostenuto da alcuni esponenti politici regionali nazionali de La Margherita, tutti questi esponenti sono poi passati nel PD, alcuni di loro erano al tavolo delle commosse celebrazioni per la morte di Fortugno in questi giorni a Locri.
L’aver raccontato anche quel sistema di poteri… i voti in Calabria e in buona parte del Sud sono come i soldi e non hanno odore, parlarne ha infastidito anche i cosiddetti “buoni”.
Quando uno scrive non deve pensare a chi infastidisce e a chi favorisce, quando uno scrive deve avere la certezza di quello che sta scrivendo, deve essere convinto delle analisi che fa. Scrive, punto e basta. Lo fa per sé, per la propria coscienza e poi gli altri giudicheranno.
Si è mai pentito di aver scritto questo libro?
No, neppure nei momenti in cui sembrava che alcune cause stessero andando male.
No, perché ricordo che quel libro lo dedicai ai miei figli, ovviamente, che vivono in buona parte nel meridione, e a tutti i ragazzi del Sud che si battono. Avendo fatto questa dedica con sincerità ma perché pentirmi?
Lo abbiamo fatto, va bene così. Rimane una traccia, chi vuole sapere qualcosa in più dell’omicidio Fortugno e vuole leggere quel piccolo contributo lo trova magari online… lo definisco in questo modo perché io non appartengo alla categoria dei giornalisti che scrivono libri. Un libro di questo tipo è solo un articolo più lungo, è solo un’inchiesta più lunga. Noi siamo giornalisti non siamo scrittori, abbiamo solo messo un tassello in una situazione.
Lucio Musolino in un post social evidenziava il fatto che Ammazzàti l’onorevole sia l’unico libro scritto sull’omicidio Fortugno. E così? Il suo è l’unico libro scritto ovvero è l’unica inchiesta che sia mai stata fatta?
Quando uscì il libro nel 2007, Lucio era un ragazzino che andava ancora all’università mi sembra e venne anche a chiedermi l’autografo. Da allora non abbiamo più perso i contatti, lavoriamo insieme al Fatto da quando è nato. Il libro è servito pure a crescere un giornalista in una terra così difficile.
Altri libri sono usciti ma erano perlopiù celebrativi del Movimento, quindi la parte relativa all’inchiesta sull’omicidio non c’era.
L’omicidio Fortugno è avvenuto in Calabria, una Regione da sempre considerata un territorio particolare. Cosa è cambiato in questi dieci anni?
Se guardiamo l’aspetto della situazione economica in Calabria è cambiato qualcosa ma in peggio.
Tutti i dati ci indicano due cose drammaticissime: uno, che insieme al Sud arretra, ma dentro il Sud arretra ancora di più collocandosi tra le regioni più povere d’Europa, la situazione economica della Calabria è al disotto di quella della Grecia.
Poi, basta leggere i dati sui flussi anagrafici o meglio ancora mettersi in qualche Autogrill della Salerno-Reggio Calabria e osservare i pullman che fanno la spola con il Nord Italia o con la Germania e partono sempre pieni.
Non sono solo i giovani che se ne vanno.
Apro una parentesi sulla favoletta che i giovani che se ne vanno dalla Calabria sono cervelli in fuga, vanno via anche giovani non scolarizzati, vanno via anche braccia come esattamente accadeva negli anni Cinquanta. Cinquantenni senza lavoro, che hanno perso il lavoro, che devono campare la famiglia e tornano da dove i loro padri erano partiti. In Germania o nell’Italia del Nord per tentare la fortuna, per cercare un lavoro…
Dal punto di vista politico, la Calabria è un animale strano. Abbiamo una base che è costituita da gruppi di potere politico-mafiosi, lobbistici, che di volta in volta decide nel caso delle elezioni regionali quali maggioranze favorire. Da quando si è istituita la Regione abbiamo una perfetta alternanza tra centro-destra e centro-sinistra. E ogni candidato, da Chiaravallotti fino a Oliverio, non vince mai con percentuali al disotto del 60%, quindi c’è un dieci-quindici per cento che viene manovrato da questi gruppi e che viene spostato di volta in volta su determinate maggioranze, su determinati candidati.
Sono gruppi politico-mafiosi. Le inchieste ormai sono tante e pure troppe rispetto a questo dato.
Sono lobby che manovrano sul tema della Sanità, sul tema delle Energie alternative ed eolico, sullo sfruttamento dei Fondi europei.
Sono queste lobby che determinano le maggioranze, i candidati… con una novità alle regionali di un anno fa vinte dal centro-sinistra, ovvero che la percentuale dei votanti è stata molto, ma molto bassa.
Regione immobile dal punto di vista politico.
Regione in estrema difficoltà economica. In pieno arretramento economico.
Cosa c’è davvero di diverso in Calabria, in Campania, in Sicilia rispetto al resto dell’Italia, dell’Europa e del mondo?
La diversità è nella incapacità della società civile, se esiste ancora, di proporsi delle alternative, di offrirsi come alternativa. Dalla immobilità dei gruppi dirigenti. Dalla arretratezza della classe politica.
La Campania è la terra del disastro di Sarno e Quindici. E adesso stiamo assistendo a cosa? Al disastro di Benevento.
Piogge che in altri Paesi sono fenomeni normali e naturali provocano disastri di questo tipo. Ma perché? Ma qualcuno ricorda che ha vinto De Luca alle ultime elezioni anche dicendo che avrebbe fatto la sanatoria edilizia?
E se esonda il fiume Calore, se esonda il fiume Sarno e perché? Perché è piovuto tanto? Probabilmente sì, ma anche e soprattutto perché il territorio è stato devastato da politiche ambientali che non ci sono state in Campania e da una cementificazione selvaggia che ha violentato fiumi, montagne e colline. E la cambiale poi ti arriva e la devi pagare.
La diversità è nell’arretratezza delle classi dirigenti, noi stiamo ancora discutendo di come rimuoveremo le ecoballe e nessuno dice una verità: quelle ecoballe non possono essere bruciate così come sono, i tecnici lo hanno detto e io mi sono pure stancato di ripeterlo e di scriverlo.
Quelle ecoballe sono il più grande imbroglio della Campania, e vanno riaperte. Stiamo parlando di imballati dal peso di una tonnellata. Quindi altro che i quattro soldi che ha messo a disposizione Renzi con la Legge di Stabilità. Vanno riaperte e ritrattate se si vogliono bruciare, perché lì c’è di tutto. Siamo andati, le abbiamo fotografate, abbiamo visto le ecoballe con dentro copertoni, pezzi di motorini, pezzi di macchina, rifiuti che non possono essere bruciati così come sono.
Di questo stiamo parlando: di una classe politica arretrata. Di una classe politica che non ha paura perché non c’è il giudizio negativo dell’elettorato.
Ad Avellino è iniziato ieri un grande processo, quello sull’Isochimica, dov’era la società civile?
C’erano i cartelloni delle mogli e dei figli degli operai morti, ma la città dov’era? Una città piccolo-borghese chiusa nei suoi tanti vizi e nelle sue pochissime virtù.
Una provincia dove pure gli intellettuali sono divisi tra di loro. Franco Arminio che fa come dire il guru sulle sue montagne, qualcuno in città che scrive libri. Dov’è il punto unificante?
Non c’è più una Sinistra. Ci sono piccoli capi-elettori, piccoli detentori di un potere locale ma tutte cose abbastanza deprimenti e miserabili.
Dove sono le classi politiche tra Avellino e Benevento? I grandi personaggi della politica che possano proporre un’idea di sviluppo?
Ancora Mastella che si propone a sindaco di Benevento, De Luca che veramente non si capisce più chi imita chi tra lui e Crozza. Ogni tanto sentiamo del successo di qualche nostro universitario ma alla fine non ci sono grandi pensieri, di cui invece il Sud ha bisogno.
Hanno costretto la gente a occuparsi della gestione quotidiana della propria crisi individuale o famigliare per non vedere oltre. Non è un quadro pessimistico il mio, io non sono pessimista, io vedo le cose.
È possibile che stiamo ragionando delle elezioni comunali di Salerno e una delle ipotesi è la candidatura di uno dei figli di De Luca? Ma in quale Medioevo siamo precipitati?
E Napoli, la grande città, e il PD che ha vinto tutto, le elezioni, non sa se fare le primarie e l’unico nome, che è anche il più intelligente di tutti alla fine, complimenti a lui, è chi è stato sindaco nel 1993?
I giovani in politica, ma quali sono?
Fino a qualche decennio fa si poteva ipotizzare una certa ingenuità dell’elettorato, che credeva alle promesse fatte in campagna elettorale, ma oggi questo può essere ancora valido?
Intanto, osserviamo sempre bene i dati elettorali del Sud tutto alle elezioni vicine all’elettore: le comunali, le provinciali che ora non si fanno più, le regionali. Se guardiamo i dati degli ultimi dieci anni ci dicono una cosa semplice: la gente va sempre meno a votare.
Quelli che vanno a votare sono disinformati o informati attraverso i talk show della tv o peggio ancora attraverso Internet. Vanno delusi, perché è sempre quello, perché non cambia mai, quindi si aggrappano a una faccia, a una promessa, ancora a qualche favore che qualcuno ha fatto. Oppure vengono convinti dalle parole che il politico o il partito dicono.
Sul territorio non ci sono più i partiti, non c’è più dibattito politico, non c’è più partecipazione. Una volta nei paesi del Sud soprattutto trovavi la sezione della DC, del Partito Comunista, dei Socialisti, uno può pensare quello che vuole dei partiti del Novecento ma erano luoghi di discussione politica in cui l’eletto si trovava a dover stabilire un confronto con gli elettori, quelli che avevano la tessera del partito, quelli che frequentavano la sezione, tutto quello che vuoi, comunque c’era il confronto. Adesso l’eletto ha paese per paese i suoi referenti, i suoi portatori di voti, deve andare là dire quattro cose, distribuire un po’ di mance, sempre meno perché la crisi è quella che è, e poi c’è il grande show della campagna elettorale.
Secondo lei la mafia si combatte per le strade, con movimenti di protesta e manifestazioni, nei palazzi, con mirate azioni legislative e di governo, o dentro ogni singola persona, con cambiamenti piccoli ma fondamentali?
Odio la definizione della mafia come un tutt’uno, preferisco parlare di mafie perché questo rende meglio l’idea della diversità.
Il caso della Calabria: tu hai difronte un’organizzazione che è ricchissima, che ha il monopolio del traffico di cocaina. Dalla fine degli anni ’80 in poi, con la fine del business dei sequestri di persona, ha pensato a un solo obiettivo, ovvero accumulare capitale e legalizzarlo.
I soldi della droga sono ristoranti, alberghi, imprese a Roma, a Milano, nei grandi lavori, investimenti in Europa, in Sud America, finanche in Australia e Canada. Questa forza economica le consente un controllo del territorio in Calabria che è strettissimo e anche un controllo della politica.
Un aneddoto che mi fu raccontato durante i giorni seguenti l’omicidio Fortugno e che mi colpì, stiamo parlando di dieci anni fa e da allora la situazione è peggiorata, fu: “Una volta i Cordì, la cosca più forte di Locri, quando incontravano uno dei Laganà, famiglia imparentata con i Fortugno che ha sempre avuto propri rappresentanti al vertice della Democrazia Cristiana anche nazionale, deputati, senatori, consiglieri del Banco di Napoli, quindi un potere, si toglievano il cappello in segno di rispetto. Vale a dire: era la mafia che capiva che c’era questa entità più forte, che era la politica, e la omaggiava in questo modo. Da un certo punto in poi i Cordì non si sono tolti più il cappello, cioè hanno ritenuto che la loro entità fosse più forte di quel potere politico”.
Questa è la realtà.
Poi hai un altro intreccio in Calabria che è fortissimo: grazie ai sequestri di persona la ‘ndrangheta ha costruito forti relazioni con pezzi dello Stato e dei Servizi Segreti. Basta rileggersi le relazioni dell’Antimafia e ci sono magistrati che hanno fatto mettere a verbale: “nessun sequestro di persona negli anni ’70 e ’80 si è risolto mai con intervento della polizia che ha liberato l’ostaggio, sono sempre stati pagati i riscatti”.
Poi ci sono le relazioni con la Massoneria.
E questo ti dice che tu devi intervenire su due aspetti: i denari della ‘ndrangheta e le relazioni politico-istituzionali. Ed è una battaglia durissima, diversa dal tipo di battaglia che devi combattere in Campania dove c’è un tipo di camorra, soprattutto a Napoli, diffusa sul territorio che punta a gestire fette ampie di disagio nei quartieri della periferia, diciamo così, interna o esterna. Lì tu devi intervenire col rigore della legge, arrestando killer, capi, capetti, boss, ma devi farlo con la lungimiranza dell’intervento in quella realtà.
Se la camorra mi attira il ragazzino di tredici anni io non posso tenere al quartiere Sanità la scuola che chiude alle due, non posso non avere assistenti sociali, per parlare degli accadimenti più attuali, e delegare tutto questo a due sacerdoti e qualche volontario, che hanno fatto un lavoro enorme. Costruiscono doposcuola per i bambini, per i ragazzi delle medie e per quelli delle superiori, hanno messo su un teatro che è un veicolo di cultura importante e i ragazzini dalla strada vengono portati al teatro, hanno creato un’orchestra, la Sanità&Sound, preti e volontari con lo Stato che non c’è.
La suora che gestisce uno dei doposcuola per bambini, ovviamente tutto gratuito che grava sulle loro spalle, mi ha detto: “ah se avessimo la palestra”. Difronte c’è un Istituto statale che alle due e mezza chiude. E ha una bella palestra. Perché? Il problema è delle istituzioni locali napoletane ma è anche dello Stato, è un problema dell’Italia.
Vuoi combattere la Camorra? Mi mandi 50 carabinieri in più, 100 poliziotti in più, non hai risolto un tubo, mi devi mandare 100 insegnanti di strada, devi ritenere che le scuole lì devono chiudere alle nove di sera. Il circuito della cultura e dell’educazione deve essere continuo, inarrestabile, come inarrestabile è il circuito di “educazione” della Camorra. Stanno là, dalla mattina alla sera, parlano, si mostrano come esempio…
Altro è cosa nostra. Ritenere che sia ancora quella degli anni delle stragi è una chiave di lettura sbagliata. Cosa nostra ha problemi, non ha più grandi capi, ma gode però della capacità di infiltrarsi nelle strutture politiche e soprattutto, vedi quello che è successo ad alcuni vertici di Confindustria locale, di averla nell’impresa in Sicilia. Come la si combatte? Anche qui con la stessa ricetta che dovresti usare per combattere la ‘ndrangheta calabrese. Chiudere i rapporti con economia e politica e sequestrare i beni, arrestare i boss.
Non esiste una ricetta unica, non esiste una mafia unica.
Enrico Fierro, giornalista e scrittore campano, è autore anche di Malitalia. Storie di mafiosi, eroi e cacciatori (Rubbettino, 2009), romanzo d’inchiesta scritto con la giornalista Laura Aprati. In collaborazione con Ruben H. Oliva ha realizzato il documentario La Santa. Viaggio nella ‘ndrangheta sconosciuta, vincitore del Premio Globo d’Oro 2007/2008, del Premio Borsellino 2007 e del Premio Itaca 2008. Attualmente scrive per «Il Fatto Quotidiano».