Penso a Giancarlo Siani, al suo coraggio, al suo entusiasmo, al suo amore per questa professione che, se svolta come si deve, è senz’altro una delle più belle che esistano; penso a tutto questo e mi balza subito agli occhi la sua età, ventisei anni appena compiuti, quando fu ucciso da due sicari della camorra per mettere a tacere questa voce limpida e scomoda, profonda ed indomita, non disposta ad arrendersi di fronte alla tracotanza di un potere occulto la cui pervasività è ben dimostrata dalla sua capacità di condizionamento nei confronti di una politica sempre più debole e infiltrata dal malaffare.
Giancarlo Siani vedeva e scriveva, indagava consumando le scarpe e “se le andava a cercare”, come tutti i cronisti di razza, come tutti coloro che non inseguono lo scoop o il sensazionalismo becero ma la notizia vera, sconveniente, il fatto che non si deve sapere, la rivelazione che dà fastidio ai piani alti e ai loro complici di quello che oggi è stato ribattezzato il “mondo di mezzo”.
Per questo è stato ucciso, la sera del 23 settembre 1985, appena giunto sotto casa a bordo della sua Citroën Mehari verde, soddisfatto per aver compiuto anche quel giorno il suo dovere di giornalista e di uomo del sud, orgoglioso di essere altro rispetto agli stereotipi che affliggono quella terra meravigliosa e maledetta, ma al tempo stesso, probabilmente, preoccupato per i crescenti pericoli ai quali si esponeva.
Siani, forse, sapeva: sapeva di aver pestato i piedi di gente che non perdona, sapeva di essere solo, sapeva di essere un obiettivo, eppure non si è fermato, scegliendo di portare fino in fondo la sua battaglia di civiltà contro un cancro che infesta da sempre questo nostro Paese alla rovescia, in cui le persone perbene faticano a trovare spazio e i farabutti vengono spesso accolti con tutti gli onori.
Per troppo tempo, non a caso, anche una parte del giornalismo si è ben guardata dal tracciare un collegamento tra la sua tragica sorte e la piovra dominante in quelle zone del napoletano nelle quali Siani conduceva le sue inchieste, documentandosi prima di scrivere, senza guardare in faccia nessuno, considerando come suo unico padrone la propria dignità e la propria coscienza, manifestando una maturità sorprendente per un ragazzo così giovane eppure già così determinato, consapevole, pronto a battersi per rendere migliore la sua terra.
Ventisei anni e un sogno: quello di costruire una società più giusta, come un partigiano moderno, mentre il giornalismo si piegava e la politica scadeva nel degrado, mentre il nostro orizzonte diventava sempre più individualista e questo ragazzo cercava di ribellarsi, con le sue sole forze, l’istinto e la penna, a un destino da molti considerato ineluttabile.
Evitiamo, però, le colate di retorica: Siani le detestava e certamente non si sarebbe riconosciuto né nella definizione di martire né in quella di eroe; era semplicemente un giornalista con la schiena dritta, un uomo perbene, un cronista che ragionava con la propria testa e non chiedeva permesso ai padroni, di fronte ai quali tanti colleghi tuttora si genuflettono, che si tratti di poteri palesi o, il più delle volte, di forze prevaricanti che agiscono nell’ombra, tirando i fili dei loro burattini esposti sul palcoscenico.
Consigliamo, pertanto, di evitare vuoti pianti di coccodrillo a quanti, dopo aver innalzato sugli altari una vittima che non può rispondere alla loro ipocrisia, tornano a difendere, proteggere e coprire quel sistema lurido contro il quale Siani, invece, si scagliava ogni giorno, quel sistema che è stato ben contento di liberarsi di lui e delle sue testimonianze, del suo scrivere limpido e senza reticenze, del suo difendere unicamente la legalità e un’idea del giornalismo antitetica a quella servile e inginocchiata di cui certi soggetti sono maestri indiscussi.
Siani, a nostro giudizio, lo si può onorare solo portando avanti a testa alta le sue battaglie, lottando al fianco dei tanti cronisti che lavorano in terra di frontiera, fra minacce e querele temerarie, intimidazioni di ogni sorta e condizioni di isolamento umilianti e pericolose; lo si può onorare non tacendo mai, vincendo la paura, scrivendo tutto ciò che si sa e stando attenti a non mistificare la realtà, a non diffamare nessuno, a controllare accuratamente le fonti e a verificare la fondatezza delle singole notizie, ricordandosi di avere fra le mani un mestiere paragonabile a un’arma.
Questo era Giancarlo Siani: un giornalista attento e scrupoloso, un giovane uomo che non ha esitato a sacrificare se stesso in nome di un ideale di verità, pulizia e trasparenza. E questo dovremmo aspirare ad essere tutti, evitando che le legittime ambizioni di carriera finiscano col prevalere sulle ragioni di esistere di una professione affascinante e difficile, ricca di soddisfazioni ma anche di tanti, dolorosi sacrifici.
Ha detto di lui il fratello Paolo: “Di noi due, insieme, conservo l’immagine di una giornata a Roma, a una marcia per la pace. Io col gesso che gli dipingo in faccia il simbolo anarchico della libertà. E lui che mi sorride”. Perché Giancarlo era anche, e direi soprattutto, un grande uomo di pace, nemico di ogni forma di violenza, crudeltà e sopraffazione.