Francesco d’Assisi tentò in ogni modo di rendere comprensibile, anche a chi gli stava più vicino, il suo desiderio di essere sempre più povero.
Il boom economico che l’Europa medievale sperimenta tra l’XI e il XIV secolo non interromperà l’antica osmosi in cui sono coinvolte da secoli povertà e bellezza. Anzi, tale processo alchemico troverà in Francesco d’Assisi il suo momento apicale. Un’affermazione di questo tipo – l’indigenza è bella? – rischia di essere solo “intellettuale” e poco accorta alla sensibilità di chi la povertà l’ha involontariamente subìta – la subisce – e pare porsi come quella che, in un linguaggio contemporaneo, definiremmo una posizione eticamente scorretta, inopportuna, fastidiosa. Ma per Francesco, il rampante mercante assisano, che visse nel pieno di profonde trasformazioni economiche e sociali, il fastidio della povertà non fu solo una scelta volontaria ma la risposta ad un quesito storico che tutt’oggi trascina nell’incertezza: chi sono i poveri?
Durante il Medioevo la concezione di povertà era molto confusa e condusse a molteplici significati: i poveri sopravvivevano di stenti, dunque bisognosi di cui la Chiesa e tutti i cristiani devono prendersi cura, ma i pauperes erano anche quelli che abbracciavano la nullatenenza avvertendo la propria condizione come strumento per avvicinarsi a Dio. Ad un certo punto per distinguere i “veri” poveri intervenne la peste, la lebbra, la malattia (l’inglese poorly sta per malaticcio), risvolto inevitabile dei successi commerciali con altri paesi, delle nuove rotte mercantili e della globalizzazione medievale.
Francesco, il povero, il fraticello deriso e preso a pedate dal ricco ambiente che lo aveva allevato e che ora lo riteneva un matto, non capito da chi giudicava la sua regola inumana, al fine di ricondurre se stesso al senso ultimo della propria esistenza e conscio della grande responsabilità che il suo esempio di vita avrebbe lasciato, tentò in ogni modo di rendere comprensibile, anche a chi gli stava più vicino, il suo desiderio di essere sempre più povero. Di definizioni di paupertas ne esistevano – ne esistono – tante e molte menzognere, ma una soltanto contiene la forma della purezza ed è la vita di Cristo che in memoria della povertà ha installato la gemma della bellezza futura.
L’ora della Prima Guerra Mondiale era già scoccata da un anno quando Gabriele D’Annunzio, riconoscendo in Francesco il responso della miseria intesa come coscienza dell’essenziale, si abbandona a sfiorare le corde del meraviglioso puro nel suo struggente racconto natalizio “Il tesoro dei poveri” (da “Parabole e novelle”, Napoli 1916). Narra il poeta che una coppia di «poverelli, così miseri che non possedevano nulla, ma proprio nulla di nulla» in una fredda Vigilia di Natale mentre «tutti gli altri in quella sera hanno il fuoco nel camino e le scarpe quasi affondate nella cenere» si imbatterono in un gatto che li condusse in una capanna abbandonata; tutt’a un tratto, rallegrandosi d’essere protetti dal bambino Gesù, scorsero un focolare e tutta la notte si strinsero scaldandosi «poiché i due carboni brillavan sempre come due monete e non si consumavano mai». Quando arrivò l’alba «i due poverelli che avevano avuto caldo ed agio tutta la notte, videro in fondo al camino il povero gatto che li guardava dai suoi grandi occhi d’oro. Ed essi non ad altro fuoco si erano scaldati che al baglior di quegli occhi». I poveri sono coloro che si fidano. Francesco ne aveva riconosciuto il tesoro.
Marco Iuffrida
Storico
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