Un uomo scavato in viso tiene le braccia dietro la schiena, passo dopo passo scruta le fotografie appese su un drappo nero: cadaveri, tanti corpi straziati, seminudi. Soccorritori, fosse di corpi e immagini di uomini prima che il massacro avvenuto a Sabra e Shatila li trasformasse in carne lacerata. Un inferno durato diversi giorni, raccontato dai giornalisti quando venne loro concesso di rinvenirlo.
L’uomo dal viso smunto racconta dello sterminio della famiglia mentre una donna regge l’immagine di quel giorno. Uno scatto che la ritrae nel suo urlo di disperazione accanto ai corpi dilaniati delle cinque figlie: un dolore tanto grande d’averle rubato anche la ragione.
Nascosto dietro alcuni banchi di merce compare uno spiazzo recintato chiuso dietro un cancello di ferro, dove confluisce chi ha deciso di commemorare il lutto collettivo di cui a tutt’oggi non sono state ancora accertati mandanti e responsabili.
Ai libanesi Shatila non interessa. Né ciò che è accaduto prima tanto meno ciò che succede ora. Anche al resto del mondo però non interessa più ricordare l’eccidio per il quale è stato persino difficile stabilire il numero dei morti (almeno 1500 persone ma fonti diverse ne stimano il doppio ) oltre che il momento esatto in cui ebbe inizio.
Il 16 settembre 1982 le truppe falangiste libanesi perpetrarono per ore un massacro senza che l’esercito israeliano intervenisse nonostante, dopo la partenza delle forze internazionali, avesse ricevuto il mandato di preservare la sicurezza in Libano.
Il corteo si incammina, preceduto dal rullo di tamburi appesi alle spalle di alcuni ragazzi che indossano una maglia nera con il viso dell’italiano più conosciuto e amato a Shatila, il giornalista del Manifesto Stefano Chiarini a cui la gente del campo riconosce l’amicizia oltre che il merito, prima della sua morte, di aver dato dignità ad una delle fosse comuni: un luogo in cui i cadaveri giacevano sotto cumuli di immondizia.
Al microfono si alternano i diversi leader del campo profughi palestinesi con gli stendardi issati dietro di loro per distinguere le diverse, numerose e frammentate fazioni del campo. Di fronte giace una lapide commemorativa sulla quale vengono posate corone di fiori bianchi e gialli mentre sul prato d’erba bruciata dal sole viene srotolata una grande bandiera della Palestina, sorretta agli angoli e fatta ondeggiare mentre sotto la quale si rincorrono alcuni bambini: per loro oggi è solo un gioco.
Gli adulti però sono certi che domani saranno loro a non permettere che l’oblio cancelli la memoria di un passato, neppure raccontato sui libri di scuola dei bambini perché addirittura troppo scomodo per ottenere dignità.
L’ultimo dei numerosi antefatti storici avvenuti prima del tragico episodio è l’ordigno esploso nella sede del partito falangista causando la morte del suo leader, il presidente del Libano Bashir Gemayel.
I militi di Ariel Sharon circondano quindi il campo di Sabra e Shatila chiudendolo. Gli uomini erano già fuggiti lasciando donne e bambini. I miliziani cristiani maroniti vi accedono, sotto la pioggia luminosa dei razzi che cadono lenti, come solo Ari Folman è riuscito a riprodurre nel suo “Valzer con Bashir”.
Robert Fisk del suo ingresso tra l’orrore scrive: “Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico”.
Oggi i cronisti arrivati dall’Europa compiono il loro rituale di interviste, “ogni anno fate la stessa cosa e non è cambiato niente per noi che siamo ancora qua” urla protestando un uomo rivolgendosi agli organizzatori della manifestazione. Viene allontanato e dicono che sia ubriaco, ma poco importa perché per quella gente davvero non cambia niente assediati dal senso di perenne precarietà, nel miraggio del loro diritto di ritorno in Palestina.