L’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo recita: chiunque ha il diritto alla libertà d’opinione e d’espressione, il che implica il diritto di non essere turbato a causa delle sue opinioni e quello di cercare, ricevere e diffondere, senza considerazione di frontiere, le informazioni e le idee attraverso qualunque mezzo di comunicazione. Sulla base di questo principio e dell’articolo 21 della Costituzione, che chi frequenta questo sito conosce molto bene, ho sempre contrastato ogni tentativo di censura e di bavaglio, anche nei confronti di chi non la pensasse come me. Non potrebbe essere diversamente per chi da sempre è portavoce di coloro che vivono in realtà in cui la libertà di parola non è scontata ma è un sogno da realizzare. Proprio perché sono convinta che noi in occidente abbiamo la fortuna di poter esprimere le nostre opinioni senza rischiare ritorsioni come purtroppo, ancora oggi, accade per molti popoli di differenti culture ed etnie per i quali la libertà è una chimera, ho approcciato la campagna #nohatespeech con le dovute cautele. Il consenso unanime nella maggior parte delle democrazie occidentali sulla legittimità dell’utilizzo di leggi per punire o inibire i cosiddetti ‘discorsi di odio’, al fine di prevenire crimini, sostenere gruppi vulnerabili, promuovere i valori di uguaglianza e rispetto e, quindi, proteggere e tutelare i diritti umani, è pienamente condivisibile.Ho studiato la legislazione di quei paesi che, prendendo liberamente spunto da obblighi internazionali, hanno promulgato leggi per combattere il razzismo, regole rigide per scoraggiare discorsi di incitamento all’odio. Approfondendone la conoscenza ho potuto guardare ai limiti e ai rischi ad esse connesse che spesso portano ad eccessi che minano le basi della democrazia.
Come in Canada, dove il confine ragionevole su cosa sia da censurare o meno spesso è stato travalicato. Vi racconto uno degli episodi che più mi hanno colpita, il caso di una pianista conosciuta a livello internazionale ‘bannata’ per avere criticato il governo dell’Ucraina.
Valentina Lisitsa, di origine ucraina appunto, è stata accusata di incitamento pubblico all’odio per aver espresso le sue opinioni politiche molto critiche, rispetto alla linea di Minsk, durante la guerra civile che ha martoriato il paese.
Lisitsa, che è nata a Kiev, è molto seguita sui social. Alcuni dei suoi concerti hanno ottenuto milioni di visite su You Tube.
Sin dall’inizio l’artista aveva appoggiato l’insurrezione di Maidan, tuttavia quando in seguito si è resa conto di come era stata strumentalizzata la rivolta e fosse stata utilizzata per gli interessi di politici corrotti, ha iniziato a denunciarlo con toni feroci.
“Mi sono messa su Twitter con l’intento di ricercare l’altra faccia della storia che ci avevano raccontato ufficialmente, le informazioni che non trovi mai nella linea principale dei grandi media, volevo conoscere le cose buone e quelle cattive che stavano accadendo in Ucraina. Ho tradotto in inglese le notizie in lingua ucraina, ho tradotto i racconti dei testimoni delle atrocità. Mi sono trasformata in una esperta nello smascherare le falsità pubblicate sui media ufficiali”.
Questo uno dei passaggi della lettera aperta che Lisitsa ha pubblicato sulla sua pagina Facebook dopo che l’Orchestra Sinfonica di Toronto aveva cancellato i suoi concerti, in programma da tempo, solo perché aveva richiamato l’attenzione sulla difficile situazione dei cittadini dell’Est dell’Ucraina, vittime dei bombardamenti portati a compimento dall’Esercito del suo Paese.
La ‘colpa’ della giovane e coraggiosa artista, aver creato un profilo su Twitter chiamato “NedoUkraïnka”, letteralmente ‘sub ucraniana’, parafrasando le dichiarazioni del primo ministro ucraino Arseni Yatseniuk che aveva definito i connazionali di etnia russa come ‘sub umani’.
Nonostante questi ‘incidenti’ sgradevoli resto convinta che l’incitamento all’odio, quello che promuove la divisione e l’intolleranza, danneggia e emargina i gruppi vulnerabili contro i quali è rivolto, sia rischioso perché le parole hanno un grande potere e possono influenzare gli altri ad agire.
Ma delimitare il confine tra chi è colpevole di questa pratica pericolosa e chi semplicemente dice cose odiose o usa un linguaggio forte per esprimere punti di vista legittimi, seppure sgradevoli, è un obbligo etico a cui nessuno può sottrarsi. E di certo non può avvenire attraverso leggi che esporrebbero a una facile criminalizzazione, annullando uno dei tratti distintivi di una società democratica: la libertà di parola.