Ricordiamo Federico Aldrovandi a dieci anni dalla scomparsa, avvenuta nella notte fra il 25 e il 26 settembre 2005, e riflettiamo su una barbarie che negli anni successivi ha portato all’attenzione delle cronache altre tragiche vittime di fermi di ad opera delle forze dell’ordine: pensiamo a Giuseppe Uva, all’ormai celebre Stefano Cucchi, a Riccardo Magherini e ci scusiamo con le famiglie di coloro che non abbiamo citato, non per dimenticanza o per disattenzione ma per il semplice motivo che quel che conta non è tanto l’elenco dei morti (per quanto i loro nomi siano tutti degni di menzione e da tenere all’attenzione dei lettori per conservarne la memoria) quanto il principio in sé: non si può morire nelle mani dello Stato.
Nel Paese che fu di Cesare Beccaria, nel Paese in cui la Costituzione ancora prevede che la pena detentiva debba servire a rieducare e far tornare cittadino chi si è macchiato di colpe e reati gravi, nel Paese in cui vige lo stato di diritto ed è bandita la faida, in questo Paese nessuno può né deve più morire mentre è in carcere o mentre è sottoposto ad un fermo, tanto più se si tratta di una persona fragile e magari soggetta ad uso di sostanze stupefacenti, come nel caso del povero Cucchi.
E si tratta quasi sempre di persone fragili e con problemi o di ragazzi perbene ma un po’ incoscienti, come lo siamo stati tutti a quell’età, perché è assai difficile che ad essere fermato sia un distinto signore in giacca e cravatta, dal portamento fiero e con l’aria da persona importante o comunque con tutti i requisiti a posto: in queste vicende, infatti, a pagare il prezzo più alto sono sempre gli ultimi, i deboli, chi avrebbe bisogno di aiuto e sostegno per uscire dal tunnel nel quale si è infilato, non di botte selvagge come quelle per cui sono sospettati o sono stati condannati alcuni agenti.
Ovviamente, sappiamo bene che personaggi del genere rappresentano una minima parte delle nostre forze dell’ordine, composte per lo più da persone integerrime e degne del massimo rispetto; lo sappiamo, ma proprio per questo chiediamo alle medesime di isolare e radiare chiunque si sia macchiato o si macchi in futuro di simili delitti: ne va della credibilità e dell’autorevolezza del corpo in sé ma anche del senso di sicurezza dei cittadini che, quando vengono fermati per un qualsiasi controllo, non devono in nessun caso temere per la propria incolumità.
Lo chiediamo dopo aver assistito alla barbarie di Genova nel 2001, dopo aver assistito alla vergogna delle prove inventate in occasione dell’assalto alla “Diaz”, dopo aver visto i volti dei pestati e dopo aver ascoltato le loro storie raccapriccianti, dopo esserci vergognati davanti al mondo per quella che è stata definita una “macelleria messicana” e “la più grave sospensione dei diritti umani dalla Seconda guerra mondiale”: abbiamo detto “mai più” e vorremmo che questo proposito divenisse finalmente realtà.
Mai più un altro caso Aldrovandi, mai più un altro caso Uva, mai più il volto tumefatto di Stefano Cucchi, mai più lo strazio di Riccardo Magherini immobilizzato a terra, mai più detenuti picchiati nelle carceri, mai più violenza e sopraffazione, mai più soprusi, mai più agenti che vestono i panni dei giustizieri della notte, mai più giustizia negata, prove insabbiate, verità nascoste, mai più. È una questione, come dicevamo, di principio ed è anche un aspetto qualificante del nostro essere giornalisti, del nostro modo di intendere l’informazione e i rapporti umani: in queste storie, infatti, i veri protagonisti sono i diritti violati, le dignità calpestate, le storie personali travolte e gettate via, le famiglie prese in giro e private di quel minimo di rispetto che dovrebbe essere riconosciuto a chiunque.
È un fatto che investe da vicino la politica e la nostra legislazione, la concezione che si ha del prossimo e l’idea stessa di giustizia, di legalità, di quel valore che gli inglesi chiamano “habeas corpus” e al quale ogni paese civile dovrebbe attenersi.
Ricordare Aldrovandi, a dieci anni dalla sua tragica scomparsa, significa pertanto molto di più che compiangere un ragazzo morto a diciott’anni: non è solo un dramma personale e familiare, è la tragedia di un Paese in cui troppe volte sono stati accantonati i diritti fondamentali, in cui troppe volte è venuto meno il rispetto per la persona umana e la sua intangibilità, in cui troppe volte ci si è accaniti su chi non si poteva difendere, in cui troppe volte qualcuno ha deciso di ergersi a paladino della legge e vendicatore solitario pur non avendone alcun diritto né facoltà.
Ricordare Aldrovandi per far risuonare quel “mai più”, ricordare il suo sacrificio e i suoi tormenti, stringersi intorno alla mamma Patrizia che da dieci anni si batte con orgoglio affinché sia fatta piena luce su quanto avvenne quella notte ma, soprattutto, schierarsi al fianco delle forze dell’ordine oneste, dei magistrati che svolgono correttamente il loro lavoro d’indagine, dei cronisti che denunciano e di tutti i familiari delle vittime che non si arrendono e hanno deciso di trasformare i propri lutti in stimoli per una riflessione collettiva sul valore della vita e sulla differenza fra certezza della pena e vendetta selvaggia e medievale.
Infine, voglio ricordarlo perché era un mio coetaneo e perché penso a quanti miei amici e conoscenti si sarebbero potuti trovare al suo posto in quel momento, magari in un’altra città, ben cosciente che no, non si può morire così, da ragazzi, con l’ingenuità e la follia dell’adolescenza ancora sulle labbra, senza aver avuto il tempo di capire il senso del limite e di diventare uomini, senza aver avuto la possibilità di maturare e di fermarsi prima di scadere nell’eccesso.