Provate ad immaginare di stare in un ascensore affollato che si blocca, il caldo, l’aria che manca, gli spazi ristretti, va via la luce, alcuni che urlano, altri che si sentono male e la sensazione che nessuno sente, nessuno può venire in aiuto. Questa situazione è niente rispetto a quello che stanno patento i profughi nelle stive dei barconi, nelle celle frigorifere dei camion sigillate e senza aria, persino nel vano motore di una macchina, tra motore bollente e lamiera rovente.
Se decidi di sopportare tutto questo anche a costo di morire, vuol dire che quello che lasci è ancora peggiore.
Questo semplice ragionamento inizia a farsi spazio in Europa. Che cessa – finalmente – di parlare di emergenza e prova ad organizzare un’accoglienza strutturale e condivisa.
Meglio tardi che mai. A patto che si insista sul lavoro come punto qualificante di integrazione. Occorre studiare al più presto un “contratto di accoglienza”, che arrivi prima dei caporali ad offrire lavoro in cambio dell’alloggiamento per i primi mesi, per dare la dignità dello scambio a chi è assistito, ma soprattutto per creare fiducia tra residenti e ospiti.
Solo così si può svuotare il giacimento di paura e ostilità che un atroce delitto riempie in un attimo, ma che non si svuota neanche di una goccia davanti all’olocausto dei migranti..
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