I primi ad aprire saranno quelli di Pozzallo e Lampedusa. Arci: “Le violazioni dei diritti saranno continue, persone trattenute illegittimamente”. Cir: “Dopo aver combattutto contro i Cie ci troviamo di fronte a una nuova forma di detenzione”
ROMA – Rimpatri più veloci, hotspot nei paesi di arrivo per distinguere chi ha diritto alla protezione internazionale e chi no, una lista di paesi sicuri per regolare le domande d’asilo. L’altra faccia del piano Juncker per la riallocazione di 160mila profughi tra i paesi dell’Ue, è una stretta sulle identificazioni. Una selezione chiara da fare nei paesi europei di arrivo, che non piace alle associazioni che si occupano da sempre di tutela dei migranti. Il rischio, denunciano, è una violazione continua dei diritti e una selezione tra profughi di serie A e serie B.
Il punto più controverso riguarda gli hotspot, cioè i centri che verranno creati nelle zone di frontiera e dove si farà una prima identificazione delle persone che arrivano in Europa. Cinque verranno creati proprio nel nostro paese ( a Pozzallo, Lampedusa, Trapani, Taranto e Augusta). Secondo alcune fonti quelli di Pozzallo e Lampedusa apriranno per primi già la prossima settimana, il 17 settembre. “Il rischio è che ci ritroviamo con un’Italia spaccata in due: a Sud gli hotspot e gli hub chiusi per i migranti che dovranno essere espulsi. Al nord i gli hub aperti che accoglieranno le persone considerate meritevoli di protezione” denuncia Filippo Miraglia, vicepresidente nazionale di Arci, che in queste ore è a Pozzallo, una delle città dove domani si marcerà scalzi in solidarietà dei profughi. “Abbiamo deciso di fare qui un’iniziativa proprio per dire no all’apertura imminente dell’hotspot di Pozzallo – sottolinea – sono troppe le cose che non ci convincono di queste strutture”. Innanzitutto, secondo Miraglia, il rischio è che si proceda secondo una selezione arbitraria e ingiusta. “Se ci saranno sbarchi di tremila-quattromila persone come in questi giorni, come si farà a identificare tutti correttamente? – si chiede -. Chi si fa identificare verrà mandato nei centri di accoglienza del nord, mentre chi si rifiuta sarà rinchiuso in questi centri, che dobbiamo chiamare di detenzione. Con il rischio che a farne le spese siano proprio quelle persone che hanno più diritto alla tutela ma che non vogliono fermarsi in Italia. E cioè i siriani e gli eritrei”. Da chiarire sono anche i tempi del trattenimento. “E’ facile immaginare che negli hotspot i profughi resteranno mesi – aggiunge – ma è illegittimo trattenere le persone oltre un certo limite senza uno specifico provvedimento del magistrato, come dice anche una recente sentenza che ha condannato il nostro paese. E’ prevedibile dunque che le violazioni dei diritti saranno continue e perenni, che saranno moltiplicati i Cie e che le persone verranno trattenute in condizioni inadeguate.”
Il problema, conclude il vicepresidente dell’Arci è che “tutta questa vicenda distrae l’attenzione dalla questione più rilavante su cui l’Europa non sta dicendo una parola, e cioè sulla possibilità di creare dei canali umanitari. I governi continuano a discutere di quote, di identificazioni e di rimpatri ma di fatto non fanno niente per evitare che la gente non sia obbligata a rischiare la vita. Di fatto ci occupiamo dei superstiti, cioè di quelli che ce la fanno ad arrivare. E questo è insopportabile, perché ad oggi non si offre nessuna via alle persone per arrivare senza doversi affidare ai trafficanti”.
Sulla stessa linea anche Fiorella Rathaus, presidente del Cir (Consiglio italiano per i rifugiati). “Il grande rischio è che dopo aver tanto combattuto per la chiusura dei Cie, ci ritroviamo con una nuova forma di detenzione – sottolinea -. Il problema è reale e su questo dovremo confrontarci. Le identificazioni sono una criticità da anni per il nostro paese, ora alla luce del piano sul ricollocamento sono un passaggio necessario. Ma devono camminare insieme alla sicurezza di una serie di criteri certi per la riallocazione delle persone – aggiunge – Non possiamo fare un passo indietro sul fronte dei diritti”. A preoccupare il Cir è anche la stretta sul riconoscimento della protezione internazionale e sui rimpatri. “Su questi due punti siamo molto preoccupati – aggiunge – perché c’è una grande confusione in questo momento. Il passaggio negli hotspot dovrebbe servire a chiarire su chi può ambire alla protezione e chi no: ma secondo noi questo non è possibile perché è totalmente inimmaginabile definire la procedura d’asilo in luoghi come questi. Ci chiediamo, dunque, come si farà a selezionare le persone in modo rapido? Forse attraverso la lista dei paesi sicuri? Questo però va contro la convenzione di Ginevra, lo abbiamo ribadito più volte. Sappiamo che esistono situazioni che gridano una necessità urgente di protezione, ma questo non può far sì che si chiuda la porta davanti ad altre situazioni. Non è il momento di fare passi indietro, la speranza è che l’apertura che l’Europea sta dimostrando sia reale”.
Sulla questione degli hotspot è tornato a parlare in questi giorni anche il prefetto Mario Morcone, presente al convegno internazionale della Comunità di Sant’Egidio, che si è svolto a Tirana. “Alcuni Paesi insistono che dovremmo creare gli ‘hotspot’: temo sia un’idea per schiacciare sui Paesi del sud- soprattutto Italia e Grecia- il fenomeno migratorio – ha detto –Su una cosa sono certo: risponderemo sempreno a chi ci chiede di realizzare una sorta di campi di concentramento per migranti in Calabria o Sicilia!”. (ec)